di Ilvano Rasimelli

L’“incredibile incidente”, verificatosi intorno alle ore 21.30 del 29 dicembre ultimo scorso, per il cedimento e rottura della spalla di contenimento laterale dello scarico di massimo invaso della diga di Montedoglio, per le conseguenze che ha avuto e, soprattutto, per gli eccezionali, drammatici pericoli corsi da tutta la zona dell’alveo del Tevere fino a valle di Perugia, pretende, da parte degli amministratori della Regione Umbria e di quella Toscana, dai responsabili dell’Autorità di Bacino del Fiume Tevere, dal Servizio Dighe del Ministero dei Lavori Pubblici e da tutti gli Enti locali interessati, una riflessione responsabile che non esclude, a mio parere, una verifica di legittimità da parte della Magistratura.
 

Cerchiamo di capire. Lo scarico di superficie delle dighe rappresenta il livello di massimo invaso. Al di sopra di questo livello, la diga di contenimento è più elevata e comprende un’altezza, definita franco di piena, per poter assicurare, durante piene eccezionali, la regolazione dei deflussi a valle. L’operazione di verifica della tenuta della diga negli eventi eccezionali è assicurata dall’impiego di opportune paratoie installate nello scarico di superficie. L’operazione di verifica di tenuta della diga al livello del franco di piena viene, di norma, effettuata utilizzando le normali portate del bacino e assicurando, quindi, un lento innalzamento del medesimo. Al contrario, l’esperimento è stato irresponsabilmente effettuato mentre nella zona ancora pioveva dopo un periodo di alte precipitazioni. E’ paradossale, poi, il crollo della parete laterale dello scarico di superficie, perché questo evento poteva compromettere il contatto con la diga in terra che per il dilavamento, ad opera dell’enorme flusso idraulico, avrebbe rapidamente travolto l’intera diga con conseguenze inimmaginabili su tutta la vallata sottostante fino al di sotto del comune di Perugia.
 

La riflessione necessaria dovrebbe colmare un lungo periodo di rapporti non mai chiariti tra la Regione Umbria e quella Toscana. Lontano da me qualsiasi intento di rompere tradizionali amichevoli sostanziali rapporti tra le nostre due Regioni. Ma quello che è certo è che le due Regioni debbono fare una riflessione critica su tutta la storia dell’Ente Irriguo Umbro-Toscano. In primo luogo, chiarendo un fatto essenziale. La diga di Montedoglio raccoglie le acque dell’Alto Tevere amministrativamente comprese nella regione Toscana, ma è indubbio che l’Alto Tevere appartiene geograficamente al bacino del fiume medesimo, sì che qualsiasi intervento, indipendentemente dai confini amministrativi, si riflette sull’intero corso d’acqua sottostante, come è dimostrato dall’ultimo incidente. Non è quindi accettabile una interpretazione restrittiva sulla proprietà e disponibilità delle acque per rispetto dei confini amministrativi. Le acque pubbliche appartengono al complesso unitario del bacino del Tevere. Questo non esclude la possibilità di alimentare con le acque dell’alto Tevere alcune esigenze della Chiana toscana appartenente al bacino dell’Arno. Va però ricordato, come elemento negativo di giudizio sui reggitori della cosa pubblica, che negli anni ’70, su commissione del Ministero Nazionale per la Programmazione Economica, di intesa con la Regione Toscana, fu redatto dal prof. Lotti e dal suo studio, di importanza nazionale, il progetto-pilota del Fiume Arno, in un quadro di utilizzazione plurima delle acque, avente come obiettivo prioritario la difesa dalle alluvioni.
Tale progetto prevedeva, con la realizzazione degli invasi sull’alto Arno, allo scopo fondamentale di prevenire le piene, di realizzare con lo stesso investimento l’irrigazione della Val di Chiana che avrebbe comportato, assolvendo il doppio scopo, un costo pari a circa il 30 per cento di quello previsto per l’irrigazione da Montedoglio.
 

Si può comunque affermare che le acque dell’Alto Tevere trascendono nel loro sistema d’uso e di gestione l’attribuzione di proprietà alla Regione Toscana, il che certamente non preclude, nell’intesa tra le due Regioni, un dirottamento parziale delle acque per le necessità della Val di Chiana, pur compresa nel bacino dell’Arno. Tralascio qui tutti i problemi di una lunga storia, a mio parere non edificante, del come negli ultimi cinquant’anni l’Ente Irriguo Val di Chiana si sia successivamente trasformato in Ente Irriguo Umbro-Toscano, con poteri su un territorio compreso per oltre il 70 per cento nella regione Umbria e con sede ad Arezzo.
Voglio però, ancora, segnalare due cose.
La prima riguarda la diga del Chiascio, nel territorio della regione Umbria. In proposito, l’attuale amministrazione regionale umbra dovrebbe rendere pubblica la relazione sulla concessione della diga sul Chiascio, prodotta su mandato dell’allora Presidente Germano Marri, da una commissione presieduta dal prof. Felice Ippolito e da autorevoli componenti geologi e ingegneri idraulici. La lettura di quella relazione consentirebbe di valutare la serietà delle sue conclusioni confermate dagli eventi che, a vent’anni dalla sua realizzazione, rendono quell’opera ancora inutilizzata.
Ultima questione, ma certamente non secondaria, riguarda un grave male nazionale, ed è quella della necessità di verifica nelle opere pubbliche del conto costi-benefici degli investimenti a vantaggio della collettività. La ricostruzione storica degli investimenti dell’Ente Irriguo a valori attualizzati andrebbe messa a confronto con i benefici ricaduti sulla collettività. Tale verifica, dai risultati certamente clamorosi, contribuirebbe a far prender coscienza di come, a causa di numerosi episodi di questo genere, si è venuta formando l’incredibile mole del debito pubblico. Certo varrebbe un esame specifico da parte della Corte dei Conti.
Mi auguro che i reggitori della cosa pubblica e la Magistratura procedano con il rigore e l’impegno del caso nell’accertamento delle responsabilità. Agli Amministratori della cosa pubblica a tutti i livelli vale proporre uno studio attento delle questioni poste per poter saggiamente deliberare.

Ilvano Rasimelli
 

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