Contratto Fiat, Quelle analogie impressionanti con il patto di Palazzo Vidoni
Maria G. Meriggi
La vicenda dell'accordo imposto dalla Fiat allo stabilimento di Mirafiori impone a tutti coloro che hanno a cuore la democrazia quale è stata costruita nella storia repubblicana una presa di posizione non dettata dalla "semplice" solidarietà ma dalla consapevolezza delle autentiche poste in gioco.
Seguendo con ansia le vicende della Fiat fin da questa estate sono stata colpita dall'affermazione di Giorgio Cremaschi sull'analogia fra la forzatura della Fiat e il patto di Palazzo Vidoni. Ne sono stata colpita anche perché quelle vicende fanno parte dei miei temi di studio. La lettura parola per parola del testo conferma questo gravissimo giudizio, confermato indirettamente anche dalle osservazioni di Luciano Gallino su questo stesso giornale del 31 dicembre. Ma guardiamo più da vicino queste possibili analogie per fare qualche riflessione sul presente.
Innanzitutto il patto di palazzo Vidoni nasceva da una fortissima pressione del fascismo in corso di diventare regime per rafforzare la scarsissima rappresentatività dei sindacati fascisti. Che si erano imposti nelle campagne con la violenza ma anche sostituendo le leghe bracciantili nel monopolio del collocamento che da elemento di forza si era trasformato in debolezza per la Federterra. Nell'industria fra il '24 e il '25 la forza della Fiom e della corrente comunista si era affermata nelle elezioni di commissione interna e nello sciopero di marzo che aveva imposto ai sindacati fascisti una faticosa rincorsa nel conflitto soprattutto a Milano. Le elezioni dei rappresentanti della Cassa Mutua Fiat e della sua CI avevano dato complessivamente a Fiom e comunisti 9.640 voti (divisi circa a metà) contro 767 ai fascisti.
Fino ad allora gli industriali esitavano ad affidarsi per le trattative a organizzatori così poco rappresentativi ed avevano dunque continuato a trattare con le CI. Dopo lo scampato pericolo dell'ccupazione delle fabbriche essi volevano certamente approfittare della situazione economica critica per ridurne le competenze ma non intendevano certo accettare dei partners forti e per di più poco rappresentativi. Il patto di palazzo Vidoni dunque parte dalle esigenze del fascismo regime di dotarsi della esclusiva rappresentanza degli operai, la classe sociale che nelle sue componenti adulte che avevano sperimentato l'esordio di vita democratica nei luoghi di lavoro manifestava una profonda resistenza alla fascistizzazione.
Una impressionante analogia con l'accordo di Mirafiori è che la volontà di escludere il sindacato conflittuale non passò dalla sua messa fuori legge ma dallo svuotamento delle sue competenze con il riconoscimento reciproco fra Confindustria e sindacati fascisti del monopolio della contrattazione esponendo gli iscritti alla Fiom al sospetto e alla persecuzione. Le CI interne venivano abolite e avrebbero dovuto essere sostituite da fiduciari di fabbrica nominati dal sindacato esterno interrompendo quel rapporto diretto fa sindacati e lavoratori in produzione liberamente eletti che era stato la grande innovazione del primo Dopoguerra. Ma il patto non nominava esplicitamente i fiduciari che sarebbero stati introdotti dopo alcuni anni e sempre contestati nelle loro attribuzioni. Il patto di palazzo Vidoni fu accelerato dall'indignazione dei fascisti per l'accordo stipulato nell'agosto '25 dalla Fiat con i comunisti della CI. Ne seguirono minaccie e violenze che costrinsero le CI alle dimissioni e in ottobre al famigerato Patto.
In che senso queste vicende possono suggerire un ragionamento anche per il presente? Nel senso che la speranza di ereditare un potere di contrattazione, una volta superata la crisi, che anima evidentemente la Cisl di Bonanni è destinata alla sconfitta: innanzitutto per la maggiore affidablità dei sindacati più rappresentativi - a cui Landini, un dirigente la cui radicalità è fatta di esperienza concreta e di conoscenza dei rapporti di forza fa spesso riferimento. Un sindacato poco rappresentativo è semplicemente inutile se non per la gestione di servizi ed enti bilaterali. D'altra parte la nomina dei rappresentanti interrompe quella relazione fra il sindacato-istituzione e il sindacato organizzatore diretto delle lotte che è stata la grande innovazione democratica iniziata a partire dal '69. Mirafiori prepara semplicemente una fabbrica e un sistema industriale in cui gli imprenditori non riconoscono altre fonti di potere e di decisione se non se stessi, in assenza anche di una qualsiasi politica industriale.
Questo deserto e questo svuotamento della legittimità del sindacato quando rinuncia a un proprio autonomo modo di agire, difendere gli interessi dei lavoratori e per ciò fare politica economica, sono ancor più gravi in un momento in cui si afferma la «partecipazione per via gerarchica», l'aspirazione di Marchionne. Una fase che richiede da parte di un sindacato che voglia continuare a svolgere il suo ruolo, il massimo di conoscenza dei processi e di creatività nel conflitto, che possono venire solo da uno scambio continuo con i delegati e i rappresentanti eletti. La Fiom ha infatti da tempo presentato una proposta di legge di iniziativa popolare sulla rapresentanza di cui purtroppo nessun governo, neanche di centro sinistra, ha fatto una sua priorità.
L'ingresso della Costituzione nei luoghi di lavoro - la cui estraneità aveva colpito così amaramente il giovane Foa - deve oggi preoccupare e dunque mobilitare un pubblico più vasto di noi, "vecchi compagni", di noi che abbiamo fatto del mondo del lavoro anche il nostro soggetto di studio. Ed è un'emergenza democratica a cui è chiamata davvero come un passaggio di legittimità l'intera Cgil. Molte speranze della democrazia passano da un sostegno convinto alla Fiom.

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