Intervista a Gallino: «Fiat, una rivoluzione al contrario"
di Checchino Antonini (Liberazione del 31 dic 2010)
L’house organ di Berlusconi titola su Pomigliano e scrive a sei colonne che sono stati “Sconfitti gli anti-italiani”. Non è la prima volta che la lotta di classe viene mistificata col patriottismo. Anche al sociologo torinese Luciano Gallino quel titolo sembra «completamente fuori luogo. Lo scontro è tra una linea di adesione in linea di principio alle ragioni dell’impresa e un’altra di ragionevole opposizione. Ma questo ha provocato l’esclusione del sindacato con più storia. E’ il prezzo da pagare per avere gli investimenti ma non si doveva arrivare a questo punto. Ora il piano d’impresa prende l’aspetto di un ricatto e ai ricatti si cede perché c’è un mutuo da pagare, ci sono i figli da crescere...
E’ quello che si legge tra le righe della lettera che lo stesso Giornale ha ospitato sulla prima di ieri. Si fa prendere parola a chi ha avuto il “coraggio” di votare Sì ma che ammette che in fondo cos’altro si poteva fare e gli si fa dire, su un giornale padronale, “lasciateci lavorare”.
Certo. queste persone esprimono l’atteggiamento di chi sta in un vicolo cieco, sono persone non possono scegliere. Però hanno qualche ragione a denunciare il pacchetto Treu: sono più di vent’anni che cosiddette riforme vanno nel senso di una nuova mercificazione del lavoro. Eccone i risultati. E’ stato fatto tutto il possibile per intaccare la forza strutturale della classe operaia. E’ in atto una
gigantesca operazione culturale, ideolologica e politica per dipingere il sindacato come un residuo ottocentesco, un relitto della rivoluzione industriale. E’ un’ operazione culturale di destra che ha reso molto. Infatti, adesso anche molti pezzi di lavoro dipendente, e di lavoro operaio in particolare, credono davvero che il sindacato sia una sorta di superstite da abbandonare al proprio destino. E’ un’operazione di delegislazione che viene da lontano, che ha già investito gli Usa e l’Europa.
Quali ricadute ci saranno sul sistema della rappresentanza? Crede che sia possibile un effetto domino tra le imprese italiane?
Le premesse ci sono però a volte anche il domino non riesce nel gioco di far cadere tutte le tessere in fila semplicemente spostando la prima. In realtà, si potrebbero aprire orizzonti preoccupanti anche per le imprese. E la posizione di Confindustria, sebbene vi siano molti dirigenti che vedono con favore la sortita di Marchionne, tradisce questo timore, che ogni azienda possa farsi il proprio sindacato. Anche per il sistema sarebbe meglio avere pochi interlocutori. Dunque l’effetto domino potrebbero incepparsi, potrebbero nascere molti tipi di conflitto, sarebbe una strada rischiosa, una svolta che la base confindustriale guarda con molta apprensione: con quale interlocutore avranno a che fare? Pensi che la Fiom è spesso l’unico sindacato o il sindacato maggioritario in molte aziende della componentistica e visto che ormai si gioca sul “just in time” centinaia di aziende del genere potrebbero giocare un ruolo nel conflitto con ricadute su tutto il comparto automobilistico.
Ritiene corretta la definizione di “rivoluzione conservatrice” per questa vicenda?
Certamente, è una rivoluzione al contrario, con il contrattaccco dei vincitori nei confronti dei perdenti.
Come nel 1980?
Quello è stato l’anno in cui comincia la globalizzazione. Ed inizia con l’attacco ai sindacati, Reagan contro i controllori di volo e Margaret Thatcher contro i sindacati dei minatori. E’ da allora che il sindacato ha perduto decine di punti percentuali. E adesso sconta una doppia debolezza: quella indotta dalla crisi, che vuol dire disoccupazione di lunga durata - i tassi, lo dice il Fmi, dovrebbero tornare “normali” nel 2017 - e gli effetti dell’attacco trentennale al sindacato.
Che peso ha l’assenza di una sponda politica di una certa consistenza per il sindacato?
Un sindacato deve essere autonomo ma deve avere un partito di riferimento perché le leggi e i codici si fanno in Parlamento ed è lì che sta avvenendo ora il transito dallo Statuto dei lavoratori a quello dello statuto dei lavori. E lì che va inserita la redistribuzione nell’agenda politica o l’attuazione degli articoli della Costituzione di una Repubblica fondata sul lavoro. Il Pd ha sprecato un’occasione storica per avere visione un po’ critica della globalizzazione, mi piacerebbe essere smentito. Senza un partito diventa tutto molto difficile ma il problema è internazionale, così anche la frammentazione sindacale. Il sindacato nasce per trasformare la debolezza in forza ma se diventano tanti addio forza. E poi ci vorrebbe anche qualcosa che asssomigli vagamente a un governo che incida sulle politiche industriali. Obama è intervenuto per cedere la Chrysler alla Fiat; in Germania il governo è un attore di primo piano, in Italia sono anni che la vicenda Fiat si pone senza che un’esile voce da Palazzo Chigi dica: “Ci sono anch’io”.
Mi rendo conto di adoperare un cliché: ma è solo un quadro a tinte fosche?
Segnali interessanti ce ne sono: il 16 ottobre in piazza con la Fiom c’erano migliaia e migliaia di non metalmeccanici e poi ho visto le manifestazioni degli studenti che hanno capito - e non soltanto dai libri - quanto sia dannosa la globalizzazione finanziarizzata di università, scuola, acqua, sanità. Potremmo assistere a qualche sviluppo interessante.
Non crede che uno sciopero generale sarebbe quanto mai urgente?
Lo sciopero è un’arma a doppio taglio: se non riesce a diventare un movimento nella società civile perché c’è poca gente o ci sono scontri, sposta il problema più in là del tempo. E’ un rischio che forse è necessario correre.

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