Intervista a Paolo Ferrero
Cinque milioni di lavoratori hanno iniziato da questa mattina a votare sull’accordo raggiunto il 23 luglio tra governo e parti sociali sul welfare, e intanto continua il pressing sul ministro di Rifondazione, Paolo Ferrero, che non voterà il protocollo se non verrà cambiato prima del consiglio dei ministri del 12 ottobre. Oggi qualcuno fra i suoi colleghi ha aperto a «piccole modifiche», si vedrà. Certo è che al ministro Ferrero tocca un compito non facile, anche perché da affrontare non c’è solo il protocollo sul welfare. C’è la Finanziaria, c’è il clima di allarme sulla «sicurezza», collegato ad arte alla «campagna» sull’immigrazione, c’è la manifestazione del 20 ottobre, con la difficoltà della sinistra di ricucire una frattura crescente tra partiti e movimenti. Di tutto questo, a partire da quest’ultimo punto, abbiamo parlato con il ministro. Cominciamo dal 20 ottobre. I No Tav hanno annunciato che non ci saranno. Anche questo è un segnale della difficoltà di relazione tra partiti e movimenti sociali. Che ne pensi? Non ho nulla da dire sulla decisione che hanno preso, naturalmente la rispetto. Però penso sia un problema, e mi sembra l’indice di una certa difficoltà a capire che la loro battaglia non è isolata, che ce ne sono anche altre, e che serve mettersi insieme agli altri anche per essere più forti a casa propria. Ma è vero che questo rifiuto parla di una crescente separazione nella relazione tra politica e società. E che Rifondazione subisce questa frattura più di altri. Come ti sembra che vada affrontato questo problema? Credo che il problema che abbiamo è che non esistono, sul terreno della politica, soluzioni che siano risolutive dei problemi che ci sono nella società. La premessa è che c’è una legge elettorale che è quella che è, e in quel contesto si è dovuto scegliere sostanzialmente se far vincere Berlusconi o se metterlo in minoranza. Con l’attuale quadro politico non esiste, su praticamente nulla, la possibilità che le scelte, anche quando vanno nella direzione giusta – e penso agli elementi di redistribuzione del reddito che ci sono nella Finanziaria – siano risolutive, di per sé, della situazione sociale, perché–ad esempio–sul reddito bisognerebbe fare dieci volte di più, affinché sia apprezzabile socialmente. Anche una cosa giusta, nella situazione in cui siamo, ha una portata limitata. E figuriamoci su punti controversi come Vicenza, la Tav e tutto il resto. Questa considerazione mi fa dire che bisogna avere la capacità di tenere insieme un indirizzo politico, in un gioco di squadra al quale ognuno partecipa con il suo ruolo, e ogni ruolo è diverso. Con la consapevolezza che si tratta di una partita complessa, e che non c’è un’ora X in cui arriva la soluzione del problema. Altrimenti, andiamo alla sconfitta. Vince, nella politica, la destra populista e liberista, e nella società la guerra tra i poveri. Da questo punto di vista, Grillo secondo me è emblematico. O si riesce a costruire una connessione tra le diverse battaglie politiche che ci sono [protocollo sul welfare, precarietà, Valle di Susa e tutto il resto] e diventa un percorso di battaglia politica fatto in parte di «guerra di posizione» e in parte di «guerra di movimento», percorso di cui il 20 ottobre è solo un pezzo importante, ma un pezzo, o riusciamo a costruire questa cultura sia nel modo di funzionare dei partiti di sinistra sia nei movimenti e nelle associazioni, oppure semplicemente ci aspetta una sconfitta secca, di tutti, dei partiti sul piano politico e dei movimenti sul piano sociale. Hai partecipato alla Perugia-Assisi. Nel frattempo, proprio in questi giorni, a Vicenza si aspetta l’avvio dei lavori per l’ampliamento della base militare statunitense, che potrebbero partire da un momento all’altro. Che vuoi dire ai comitati che si stanno preparando a resistere alle ruspe? Io sono contro il raddoppio della base militare Usa di Vicenza. Considero sbagliata la scelta di confermare – perché di questo si è trattato – un accordo già preso. Ora spero che, proprio a partire dalla lotta nonviolenta dei comitati No Dal Molin, si possa riaprire una discussione politica. Veniamo alla Finanziaria. Il caso della tassazione delle rendite sembra a molti esemplificativo di un metodo. Prodi riceve un documento da 150 parlamentari della sua coalizione che dice, tra l’altro, tassiamo le rendite; questo tema fa parte del programma; dopo due giorni il presidente vola a New York, cena con Dini, e dice: le rendite non si tassano. Quali sono gli equilibri, nel governo? Lasciami dire che secondo me questa visione vede un pezzo e non vede l’altro, ad esempio non vede che nella Finanziaria ci sono, per esempio, in tutto 4 miliardi di redistribuzione del reddito, così come il «piano casa», che si muove sul terreno dell’offerta di alloggi pubblici, cosa che non avveniva da dieci anni. Dico questo per dire che secondo me c’è un pezzo di sinistra che riesce solo a vedere l’elemento – che c’è – negativo, senza vedere mai i risultati della battaglia politica. Per cui il fatto, per dire, che non si veda come si sia usciti dall’Iraq, così come il fatto che non ci sia più bisogno di fare il campeggio anti Ponte perché il Ponte sullo Stretto di Messina non si fa più, o che non veda come la Finanziaria dia una prima risposta ai movimenti di lotta per la casa, secondo me il non vedere tutto questo determina un politicismo che a sua volta determina solo impotenza. Perché non si coglie mai quando porti a casa un risultato: e il governo, per me, è un terreno di lotta di classe, non è un pranzo di gala. Tra l’altro, con quella chiave di lettura, non si capisce perché tutti i poteri forti concorrono a far cadere il governo, né perché l’ala centrista si muove in un certo modo. Corollario di questo, è il fatto che quando il governo fa una cosa buona, ma concretamente ha un problema nella società, come nel caso dell’immigrazione, gli unici che fanno un vero lavoro nel sociale sono quelli della destra estrema, che lavora contro, mentre a sinistra praticamente non si fa nulla. L’immigrazione, appunto. Hai messo mesi per costruire un approccio basato su un doppio binario, che tenesse insieme la parte gestita dal ministero dell’interno e dalle sue «priorità» con la tua, improntata alla solidarietà. Per un pezzo sembrava che funzionasse, poi è passata l’estate, una terribile estate di campagne, allarmi, oridinanze, sgomberi. Che fine ha fatto quell’approccio? Spero che tenga, sulla verifica della legge. Per quello che mi riguarda, è ancora lì. Però ripeto, secondo me c’è ovviamente una campagna terribile, ma c’è anche il fatto che mentre la destra fa lavoro militante e costruisce immaginari, molta parte della sinistra rischia di rimanere ad applaudire o fischiare quello che fa il governo. Con scarsa soggettività di iniziativa politica: questo ci mette complessivamente [o ci lascia] sulla difensiva, e quindi io penso, di nuovo, che c’è un problema. Bisogna sapere che il governo è quello che è, e si tira e si molla, ma non sarà mai risolutivo, perché la partita vera che può cambiare lo scenario la si gioca nella società. Perché è la società che decide, alla fine, come si vede anche sulla sicurezza, del livello di mediazione raggiungibile. Se nella società riesci a costruire un certo clima, avrai una mediazione; se il clima è un altro, il risultato sarà un altro. Da questo punto di vista la realtà è molto più marxista della sinistra. Cosa ti aspetti dalle trattative sul protocollo? Hai ribadito che non lo voterai, nel consiglio dei ministri, se resterà così. Secondo te che succederà? Mi aspetto che le assemblee nei luoghi di lavoro, il risultato dei referendum e anche la manifestazione del 20 ottobre vengano ascoltate. Appunto, il fatto è che non è solo la sinistra politica a parlare, e a chiedere di cambiare il protocollo. E’ un terremoto nella società, che dice «così non funziona, questo non ci piace», e mi aspetto che sia questo fatto a far modificare il protocollo, perché non risponde ai problemi della società italiana di oggi.
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