A distanza di dieci anni dalla sua originaria pubblicazione da Limina, Fandango torna a pubblicare L'ultima partita di Giovanni Bianconi e Andrea Salerno (pp. 210, 10 euro), dedicato alla vita di Agostino Di Bartolomei, capitano della bellissima Roma di Liedholm campione d'Italia nel 1983 e finalista della Coppa dei campioni nel 1984 (sconfitta ai rigori contro il Liverpool), e poi protagonista ancora con Liedholm dell'ultimo Milan prima di Berlusconi (quello anche di Wilkins e di Hateley), e infine giocatore a fine carriera nella Salernitana che nel 1990 ritornava in serie B dopo ventiquattro anni; e quasi pare inventata, la biografia di Di Bartolomei, paradigmatica com'è nella drammatica predestinazione che sembra accompagnarla in ogni momento: tanto nell'ascesa gloriosa ed esaltante dai campetti della periferia romana e dell'oratorio fino all'Olimpico, quanto nella caduta successiva - fino al suicidio, un colpo di pistola al cuore in una bella mattina già estiva del 1994 (come ricorda il figlio Luca nella commovente introduzione). Per la precisione, era il 30 maggio del 1994; ed esattamente a dieci anni prima risaliva la finale persa contro il Liverpool, che simbolicamente aveva rappresentato appunto «l'ultima partita» di Di Bartolomei nella Roma (quasi stessero fuori dal conto le partite che in giugno avrebbe giocato ancora nella finale di Coppa Italia vinta contro il Verona di Bagnoli).
Invece è tutta vera, la vita di Di Bartolomei che Bianconi e Salerno raccontano, e raccontano benissimo: quella predestinazione semplicemente affiora dalle cose e dalle pagine, senza che mai il racconto indulga a banale retorica umana o sportiva; e ne resta, chiuso il libro, un senso di grande malinconia, la stessa malinconia che di Di Bartolomei era un tratto caratteristico - come lo ricordano unanimi i testimoni, e qual era in fondo dipinta sul suo volto anche solo a riguardarlo nelle fotografie o nei filmati d'epoca.
Da calciatore, Di Bartolomei aveva avuto molto, pur essendo «un po' disorganico al mondo, alla cultura e ai linguaggi nei quali era inserito» (nelle parole di Antonello Venditti, che è uno dei testimoni): più colto e più impegnato socialmente e politicamente della media e più schivo e più timido di quanto sarebbe stato necessario (e soprattutto di quanto l'aria del tempo avrebbe richiesto, perché l'Italia si stava trasformando in quella società dello spettacolo e della sfrontatezza nella quale da lì a poco sarebbe definitivamente sprofondata - e fra l'altro proprio questo è uno dei registri sui quali è giocata la storia che la vita di Di Bartolomei ha ispirato anche a Paolo Sorrentino, nel suo film lodato e premiato del 2001, L'uomo in più). Certo anche da calciatore aveva conosciuto delusioni e difficoltà, le accuse di essere troppo lento sempre più frequenti in un calcio che a sua volta sempre più si stava votando alla religione del pressing e dell'annullamento della tecnica e dell'individualità; e quella malinconia, quel disagio. Ma da calciatore ogni scarto rispetto a ciò che avrebbe dovuto essere secondo le regole prescritte poteva essere ovviato dal talento, ogni disagio colmato dal successo; e fino all'avvento di Sacchi e del sacchismo, Liedholm continuò ad aver ragione, e con lui Di Bartolomei: occorreva far sudare la palla e non i giocatori, i quali da parte loro non dovevano essere superatleti.
Solo dopo vennero davvero i problemi, quando «più si allontanava il periodo delle sue giocate che infiammavano gli stadi» e «più diventava difficile per lui essere riconoscibile» (di nuovo nelle parole di Venditti). Solo dopo: quando il mondo del calcio effettivamente dimenticò Di Bartolomei, omise di proporgli incarichi e ruoli, trascurò le richieste che mai da Di Bartolomei provennero esplicite bensì soltanto a mezze parole, dissimulate dietro manifestazioni di disponibilità, dietro la cortesia dell'offerta di consigli, di suggerimenti. Nessuno più lo cercò, neppure dalla Roma che aveva contribuito a far grande; e forse qui potrebbe essere cercata, sembra, la chiave del suo suicidio.
È tutta vera, la storia di Di Bartolomei raccontata da Bianconi e Salerno; ed è tutta vera, a ben vedere, anche in quella stessa esemplarità che pur la farebbe sembrare quasi inventata. È ancora più vera, da questo punto di vista, rispetto a quando L'ultima partita era stato pubblicato la prima volta, dieci anni fa: perché quel che è successo, nel frattempo, è che la depressione nel mondo del calcio (pur nella genericità del concetto di depressione) non è più il tabù che era, lo stato d'animo innominabile e di cui vergognarsi. È successo, nel frattempo, che campioni come Buffon hanno confessato di esserlo stati, depressi; che altri si sono suicidati nel pieno della carriera, come il portiere tedesco Robert Enke, o hanno tentato di farlo addirittura ai suoi splendenti albori, come il giovanissimo e promettente interista Martin Bengtsson; e c'è stato il caso di Pessotto. È successo, insomma, che Di Bartolomei risulta oggi, ex post, meno «disorganico al mondo» di quanto fosse da vivo: ma ciò non è di minima consolazione, e solo semmai attribuisce alla sua parabola esistenziale e al libro di Bianconi e Salerno che la raccontano un valore aggiunto rispetto a tutto il resto, tra il profetico e il monitorio.
Da Il Manifesto del 18 settembre 2010
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