«È curioso notare come la Morgan Stanley, banca storicamente vicina a Marchionne, non consideri le proiezioni finanziarie sottostanti a Fabbrica Italia, il programma di 20 miliardi di investimenti in 5 anni presentato dalla Fiat al governo per raddoppiare la produzione di auto nel paese e ottenere via libera alla chiusura di Termini Imerese e alle ristrutturazioni prossime venture». Così Massimo Mucchetti sul Corsera del 13 settembre, analizzando la separazione del comparto auto e relative componenti da quello dei veicoli industriali e delle macchine per il movimento terra.
Si tratta di una operazione finalizzata a separare la «polpa», cioè le produzioni in attivo con una redditualità ancora sicura, che in questo modo resteranno saldamente nelle mani della famiglia Agnelli, dalle produzioni a rischio, cioè l'auto, che non promettono niente di buono - nonostante l'ottima performance del settore «lusso», Ferrari e Maserati - che forse riusciranno a salvarsi attraverso la fusione con Chrysler, se l'apparente ripresa di quest'ultima si rivelerà effettiva. Ma che potrebbero anche finire tra le fauci di qualche gruppo più forte, se le operazioni di ingegneria finanziaria per metterle al sicuro da una scalata ostile andranno in porto; e soprattutto se il mercato euroamericano dei veicoli di gamma bassa, in cui opera la Fiat, offrirà un respiro. Il che non pare probabile.
Nello stesso articolo il Corriere ci informa che «secondo la società di consulenza strategica americana A. T. Kerny, la domanda di automobili crescerà soprattutto in Asia, mentre in Europa e in Nord America - i paesi in cui Fiat-Chrysler dovrebbe piazzare la maggior parte dei 6 milioni di auto che Marchionne ritiene indispensabili per la sopravvivenza del gruppo - rimarrà ferma in cifra assoluta». Cosa talmente nota e ovvia che forse per saperlo non era indispensabile il ricorso a una società di «consulenza strategica».
In un contesto del genere il fatto che al momento di dividersi le spoglie del gruppo tra polpa e cartilagini, il piano Fabbrica Italia - 20 miliardi di euro e un milione e mezzo di vetture da produrre negli stabilimenti italiani, contro le 650mila attuali - non venga nemmeno menzionato non è «curioso», come sostiene l'articolo, ma altrettanto ovvio.
Fabbrica Italia - come Mucchetti si limita a insinuare: «La verità è che una cosa sono i piani, un'altra i discorsi e una terza sono le decisioni reali quando si fa cassa integrazione, e il debito finanziario... aumenta da 28 a 30 miliardi» - non è che uno specchietto per le allodole: per governo e sindacati collaborazionisti, più la foresta di intellettuali e politici che ha dato loro credito. Serve a giustificare non solo la chiusura di Termini Imerese, scontata ormai da almeno tre anni, nonostante che per non vederla i sindacati - tutti - abbiano continuato a nascondere la testa sotto la sabbia; ma serve anche, e soprattutto, a giustificare il ben più sostanziale attacco contro le condizioni di vita e di lavoro lanciato con l'accordo di Pomigliano, ma ormai in dirittura d'arrivo per la sua estensione a tutti gli stabilimenti del gruppo - e poi a tutte le aziende associate a Federmeccanica; e poi a tutto il resto dei lavoratori italiani - in nome della «competitività».
In cambio di che cosa? Di niente, se al momento di spartirsi le spoglie, e di mettere al sicuro il malloppo degli Agnelli, il gigantesco indebitamento a cui il settore auto del gruppo dovrebbe andare incontro per finanziare quel piano non viene nemmeno preso in considerazione e, anzi, i conti del primo semestre dell'anno indicano addirittura una netta riduzione degli investimenti. D'altronde, nemmeno Marchionne ha mai data per scontata la realizzazione del suo piano industriale; la ha sempre subordinata a una ripresa del mercato che nessuna delle valutazioni correnti consente di prevedere.
Quali siano i piani effettivi di Marchionne non solo per lo stabilimento di Pomigliano, ma anche per Mirafiori, Sevel e persino Melfi, forse non lo sa nemmeno lui: aspetta le occasioni: ieri erano la Chrysler (andata a «buon fine», per lo meno per ora) e la Opel (mancata); oggi sono la Serbia (peraltro non così rapida come prospettato); domani chissà? Potrebbe anche essere l'assorbimento da parte di un gruppo più grande: magari con uno spezzatino tra Fiat, Lancia e Alfaromeo. O financo tra i vari stabilimenti di produzione. Il cui valore - in borsa - dipenderà soprattutto da quanto operai e sindacati avranno piegato la testa di fronte ai suoi ricatti.
Che fare allora? Non solo la politica industriale, e nemmeno solo la politica tout court, ma la vita di decine di migliaia di lavoratori - della Fiat e dell'indotto - e l'economia dell'intero paese non possono continuare a restare alla mercé delle occasioni in cui si imbatterà Marchionne. La crisi ambientale del pianeta Terra mette all'ordine del giorno l'urgenza di coinvolgere le risorse e le forze produttive di ogni territorio in un grandioso progetto di riconversione. Gli stabilimenti della Fiat e dell'indotto hanno tutte le carte in regola per venire gradualmente impegnate in un percorso del genere.
Per la prima volta la questione ambientale si confronta non solo con le convenienze dell'impresa (un tema su cui si sono esercitati da alcuni decenni, e per lo più a vuoto, nonostante il profluvio dei testi prodotti, gli aedi del pensiero unico e delle virtù del mercato), ma con il problema dell'occupazione e della condizione di lavoro in fabbrica. Difendere l'una e l'altra non può essere fatto senza porre all'ordine del giorno, a livello nazionale e internazionale, ma soprattutto nei singoli territori, a partire dalle situazioni di crisi, il tema di una conversione produttiva: dalle produzioni ambientalmente nocive e senza prospettive di mercato a quelle con un sicuro avvenire in un pianeta in cui è sempre più urgente fare i conti con la sua sopravvivenza. Che è anche l'unica strada per evitare un irreversibile declino del paese.
Da Il Manifesto del 15 settembre 2010
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