Fabio Sebastiani
Che ne dice, professor Gallino, di questo nuovo ballon d’essai del confronto tra Italia e Germania dopo che il governatore di Bankitalia ha proposto il modello tedesco anche per il nostro paese?
E’ facile proporre la Germania come modello, ma poi è molto difficile metterlo in pratica. E non è detto che sia la ricetta più felice. Il peso dell’esportazione in Germania è basato tutto sul “mors tua vita mea”, innanzitutto rispetto agli altri paesi dell’Ue. Se tutti esportano alla fine l’equazione non quadra. Inoltre, il primato tedesco che è nell’alta tecnologia, macchine utensili e laser, è costato parecchio agli operai tedeschi che da una parte hanno una busta paga del 25% più alta di quelle italiane ma nell’insieme hanno dovuto registrare un ristagno dei salari rispetto alla produttività, nel mentre aumentata molto. Il risultato è che oggi la Germania ha un tasso di lavoratori poveri più alta rispetto all’Europa. I lavoratori poveri in Germania sono il 22%. In Francia sono meno della metà di questo dato. Va detto che se avessero salari più alti e importassero di più se ne gioverebbero le altre economie dell’euro zona.
Un capitolo importante di questo confronto, tra l’altro quasi per nulla considerato da Tremonti nella sua intervista a “Repubblica”, è quello della ricerca e sviluppo.
Il confronto si può fare ma è tutto a scapito nostro perché le nostre spese su ricerca e sviluppo sono la metà di quelle tedesce e in molti punti anche un terzo.
Tremonti è stato omertoso anche su un altro nodo importante della nostra struttura produttiva, l’eccessiva articolazione in piccole e medie imprese.
I tedeschi sono riusciti a metterle insieme attraverso la cosiddetta rete di competenza in cui collegano piccole e medie imprese che hanno una missione produttiva simile o complementare, che per esempio, significa più comunicazione interna e più trasferimenti di tecnologie. Su questi temi siamo completamente assenti. Abbiamo circa un centinaio di distretti industriali secondo l’Istat, ma sono meri aggregati di siti produttivi che non fanno reti di competenze né, come in Francia, poli di competitività. Questi ultimi sono aggregazioni accuratamente studiate e promosse dello Stato e dalle Regioni. Ciò porta ad alcuni risultati quali quello di avere, per esempio, la filiera della formazione compatibile con quel determinato settore economico. In questo c’è la propulsione dello Stato. Interventi che alla fine non sono così dispendiosi perché siamo in presenza di funzioni di coordinamento e promozione. Ci sono persone esperte e capaci in grado di mettere intorno ad un tavolo aziende complementari, dove ognuno mantiene la propria indipendenza.
Non crede che l’intreccio tra politica e impresa abbia orientato e potenziato questa tendenza al “piccolo è brutto”.
Si tratta di un patto al ribasso quello avvenuto in Italia tra politica e impresa medio e piccola, perché fondato sul lasciateci lavorare. Non guardate i nostri bilanci e possiamo diventare buoni amici. Abbiamo una percentuale troppo alta di piccole e medie imprese. I lavoratori autonomi in Germania sono al 13, da noi al 27%. Chiedere alla piccola
e media imprese di aggregarsi è come chiedere a una persona di alzarsi tirando su la sedia dove è seduta.
Occorrono delle iniziative attive, degli impegni precisi per favorire la formazione dei consorzi e l’infrastrutturazione
del territorio, il coordinamento di funzioni, come la logistica.
Ci vuole per questo molta volontà politica più che soldi. Sono trent’anni in Italia che andiamo avanti con questa storia dei distretti industriali. Abbiamo perso decenni per non creare nulla.
Come si lega tutto questo con leprospettive della crisi attuale?
L’Italia sta come gli altri paesi, magari un po’ peggio. Il punto critico di questa crisi è che andiamo verso anni in cui ci saranno un gran numero di disoccupati di lunga durata, un numero crescente di lavoro informale, giovani che stenteranno a trovare una occupazione e un gran numero di persone che un lavoro dopo il 45 anni non lo troveranno più. Quindi, la creazione di posti di lavoro deve essere il primo punto di qualsiasi politica economica.
Non si può certo pensare di risolverla con l’export. Alcuni nodi nostri presupporrebbero la riorganizzazione dell’intero sistema economico. Per esempio, la ristrutturazione dell’assetto idrogeologico visto che a paragone i danni delle catastrofi cosiddette naturali ci costano comunque il doppio. E poi c’è il grande tema della ristrutturazione del trasporto pubblico. Abbiamo 200 chilometri di metro in tutta Italia, mentre Parigi ne ha da sola 500.
C’è un problema di mobilità generale che va risolto. L’auto ormai è un suicidio. Occorre pensare ai problemi strutturali del paese perché lì ci sarebbe la possibilità di avere nuovi posti di lavoro. Senza parlare della situazione strutturale delle scuole.
Da Liberazione del 7 settembre 2010
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