Una platea attenta ha riempito ieri pomeriggio la sala convegni di Villa Redenta a Spoleto, convenuta per ascoltare le parole di sindacalisti e politici di sinistra sui problemi del lavoro dopo l’offensiva padronale scatenatasi con le deroghe al contratto nazionale e la conseguente sottrazione di diritti ai lavoratori dello stabilimento del gruppo Fiat di Pomigliano.
Gli onori di casa li ha fatti Maura Coltorti, segretaria del circolo di Rifondazione comunista di Spoleto, che ha organizzato l’incontro. Ha poi introdotto la discussione Luciano Della Vecchia, responsabile regionale lavoro del Prc e membro della segreteria regionale, che ha sottolineato la necessità di un impegno comune della sinistra, a partire dalla costituenda Federazione, per le questioni del lavoro e dei beni comuni:, con la proposta di un piano regionale straordinario del lavoro, l’introduzione del reddito sociale, la mobilitazione per il referendum per l’acqua pubblica.
Successivamente è intervenuto il segretario regionale della Cgil Mario Bravi che ha illustrato le difficoltà di tante realtà industriali ed economiche dell’Umbria e la preoccupante ricaduta che la crisi rischia di avere sul tessuto occupazionale umbro. Bravi ha richiamato la necessità delle mobilitazioni delle organizzazioni dei lavoratori previste per settembre e ottobre: a settembre la lotta dei sindacati europei, alla quale in Italia non aderiscono Cisl e Uil, e il 16 ottobre la mobilitazione della Fiom per la difesa del contratto nazionale di lavoro e dei diritti dei lavoratori.
Ha poi preso la parola Gianluca Tofi per il comitato dei lavoratori della Merloni che ha illustrato la difficile situazione che vivono i lavoratori dell’azienda metalmeccanica, dopo anni di durata della vertenza e con l’incertezza sul futuro lavorativo che ancora pende sulle loro teste.
Infine, ha concluso il dibattito Giorgio Cremaschi, della segreteria nazionale della Fiom, che ha tratteggiato un quadro lucido della complicata fase politica e sociale che stiamo attraversando, in cui la posta in gioco è la difesa della democrazia nel nostro Paese e la difesa di un modello sociale, quello europeo, che viene messo pesantemente in discussione dalla globalizzazione neoliberista e dai “padroni del vapore”.
Questione sociale e questione democratica sono oggi, per Cremaschi, strettamente correlate e le forze politiche devono comprendere a pieno la gravità della situazione, mettendo in campo un progetto che insieme è di difesa della Carta costituzionale e dei diritti del lavoro. Confindustria e la Fiat, che è l’avanguardia dell’attacco padronale, e con loro il governo Berlusconi vogliono percorrere il processo inverso rispetto a quello innescatosi con l’autunno caldo del 1969. Allora l’obiettivo era portare la Costituzione dentro le fabbriche, risultato raggiunto con lo Statuto dei lavoratori e la stagione di conquiste legislative di allargamento dei diritti della classe lavoratrice e di attuazione dell’art. 1 della Costituzione, che recita “L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro”; oggi l’obiettivo è quello di espungere la Costituzione dai luoghi di lavoro come primo passo per smantellare un modello sociale e cambiare la carta fonte suprema del nostro ordinamento giuridico.
Ironia della sorte, questo processo di regressione sociale lo si vuole far passare come espressione massima della modernità: la centralità dell’impresa nella regolazione della società, la cancellazione del conflitto capitale/lavoro, l’dea che l’interesse dell’impresa e anche quello dei lavoratori per Cremaschi non sono affatto “moderni”, come vogliono intellettuali e organi di informazione, ma antichissimi, visto che sono riconducibili alla visione organicistica della società romana che tremila anni fa esponeva Menenio Agrippa per convincere i plebei a non fare guerra al Senato.
Queste ricette neoliberiste, messe a dura prova dalla crisi economica e finanziaria del 2008, sono ritornate in auge dopo il soccorso pubblico alle banche e all’economia mondiale, come se nulla fosse successo. Il punto è che sono fallimentari, non producono nuova ricchezza e prosperità, se non per le stesse banche e gli stessi capitani d’industria che fanno saltare il sistema. Chiedere sacrifici ai lavoratori e ai ceti sociali più deboli per far ripartire il meccanismo di accumulazione è un arma spuntata. Un grande esponente politico comunista, Enrico Berlinguer, lo aveva capito nel 1980, difendendo la scala mobile e i diritti dei lavoratori, come mezzo per difendere un modello sociale e un sistema democratico. Contro l’involuzione attuale e il processo di realizzazione di una democrazia autoritaria, le forze politiche della società italiana dovrebbero quantomeno mettere in campo un progetto all’altezza dell’elaborazione di Berlinguer. Pena il ritorno ad un “feudalesimo” nei luoghi di lavoro e nella società.
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