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Alcide Cervi, I miei sette figli, Einaudi, Torino 2010. A cura di Renato Nicolai Introduzione di Luciano Casali Lo stile è semplice e umile, ma non dimesso; il linguaggio asciutto e senza concessioni alla retorica, nemmeno nei momenti più toccanti; la prosa concreta e lineare, segnata da locuzioni popolari, di sapore vagamente verghiano. La vicenda una storia autentica, terribilmente autentica, ma trasfigurata nell’immaginario della nostra storia repubblicana in un potentissimo mito. La narrazione del libro di Alcide Cervi, I miei sette figli, da poco ripubblicato dalla casa editrice Einaudi, scorre chiara e incisiva e si svolge in una testimonianza forte e intensa. Sono pagine che si leggono con amarezza e rabbia per un tremendo destino; pagine davvero ispirate a quell’umanesimo di razza contadina di cui parlava Quasimodo; pagine, infine, che contengono una genuinità per certi versi ignota ai letterati e ai teorici, forza di una sapienza che nasce direttamente dal quotidiano. Come negli scritti di Don Milani, anche qui le affermazioni vengono dalla pratica e non da astrattezze, dall’azione e non dalla teoria pura. Dal basso e non dall’alto: è la dottrina delle persone non dotte, ma autodidatte e ricche di cultura, veri e propri “contadini di scienza”, come rivendica orgogliosamente Alcide. Degli undici capitoli di un libro scritto “come il cuore ha saputo”, il primo e l’ultimo costituiscono una sorta di cornice in cui papà Cervi rispettivamente spiega le motivazioni per le quali il libro è stato composto e conclude affermando la speranza sincera che il sacrificio dei suoi sette figli possa favorire la pace nella giovane Italia repubblicana; gli altri nove ripercorrono, con un andamento sostanzialmente cronologico, la storia “grande e terribile” dei Cervi, risalendo alla gioventù di Alcide (nato nel 1875), al matrimonio con Genoveffa (così si legge nel testo, nonostante il vero nome fosseGenoeffa), e proseguendo poi attraverso la formazione della famiglia, la crescita dei figli, il loro lavoro nei campi, fino naturalmente all’attività antifascista e alla tragica conclusione. Leggendo le prime pagine, si capisce come nei giovani Alcide e Genoveffa, pur di convinta fede cattolica, vi sia già, in nuce, una visione socialista del mondo, che alimenta pulsioni ribellistiche rispetto alle ingiustizie tra gli individui e alla brutalità dei rapporti di classe. Ciò, del resto, viene detto con forza dallo stesso protagonista: “Andavo sempre controcorrente perché facevo valere la legge anche sugli ufficiali e i generali. Ma non mi prendevo con loro a quattr’occhi, li criticavo davanti ai soldati”. Notevole, in queste parole, è anche il riferimento alla legalità, un tema certo caro ad Alcide, il quale, del resto, più avanti nel libro, dirà che il fascismo è “tutto un furto da Codice Penale”. Indicativi di questo giovanile spirito di rivolta, suo e di Genoveffa, sono due racconti riferiti nel testo in modo particolareggiato: nel primo, un Alcide ancora ragazzo, durante la leva, dà del traditore al generale Ottolenghi (reo di aver trasgredito il regolamento militare), ricevendo onestamente in cambio da questo non una punizione, ma un premio, vista la sua capacità di vigilare sulla patria e di non guardar in faccia a nessuno per la difesa di essa; nel secondo, Genoveffa, ragazza pur “timida e riguardosa”, si rifiuta di dormire in una soffitta umida, cerca di farlo capire al padrone con le buone, ma, inascoltata, decide di fare un buco nel pavimento del solaio, così che possa cadere sulla sottostante camera da letto dei signori dormienti l’acqua cumulatasi per le abbondanti piogge. Stupisce, in un’Italia, quella dei primi decenni del Novecento, saldamente ancorata alle vecchie gerarchie tra marito e moglie e tra padre e figli, la grande democrazia vigente nei rapporti tra i componenti della famiglia Cervi, aspetto, questo, di sicuro legato a un’altra loro caratteristica, anch’essa non certo dominante nelle abitudini del tempo: la pratica costante della lettura, sin da quando la madre, quando i figli erano ancora bambini, oltre a raccontare le favole, era solita recitare, a chi tra i familiari avesse voluto ascoltarla, passi tratti dalla Bibbia, ma anche dai Promessi Sposi e dalla Divina Commedia. L’importanza della lettura segnò evidentemente la formazione culturale dei fratelli e, pare, soprattutto del quartogenito Aldo, che, dopo l’esperienza ingiusta e dura, ma assai formativa, del carcere di Gaeta, ambiente in cui comincia a familiarizzare con le idee socialiste (tanto che Alcide parla di “Università del carcere”), riesce addirittura ad aprire una biblioteca a Campegine (Reggio Emilia), offrendo la possibilità di letture impegnative e assai pericolose nei tempi bui del ventennio, come Il Capitale di Marx o La concezione materialistica della storia di Labriola o il Che fare? di Lenin. Ma questa nobile attività è naturalmente coniugata al lavoro, al duro lavoro dei campi e al coraggio dimostrato nell’affrontare l’avventura rischiosa di nuove frontiere. Importante, sotto questo aspetto, è la data del 1934, poiché quell’anno segna un momento centrale nella lotta dei nostri protagonisti per l’emancipazione: i Cervi, infatti, dopo aver “fatto San Martino” (cioè dopo aver abbandonato un fondo per un altro), riescono a liberarsi dall’antico cappio della mezzadria e decidono di prendere in affitto un podere ai «Campi Rossi» di Gattatico: a fronte della diffidenza conservatrice dei signori, ora possono finalmente applicare quelle tecniche innovative di coltivazione apprese attraverso la lettura di trattati sull’agricoltura. Iniziava, dunque, l’epopea pionieristica del livellamento delle terre. La famiglia Cervi crede fermamente nel progresso e si adopera affinché questa fede non vada a infrangersi contro il muro della regressione e della schiavitù rappresentata dal nazi-fascismo. Certo, la fiducia nel progresso, nei nostri protagonisti, come in molta parte delle forze lavoratrici dell’epoca, sembrava trovare una spinta decisiva nella volontà di dare ognuno il proprio contributo per far sorgere il “Sol dellAvvenire”, avendo in mente i grandi risultati della Russia sovietica di Stalin, una potenza che, inopinatamente per molti, rappresentava un modello di sviluppo quasi sovrumano, ma reale, estremamente reale, poiché frutto dell’impegno collettivo di un popolo intero per la costruzione del socialismo. Si legge a pag. 64: “capimmo ... che il socialismo eravamo anche noi e che anche noi eravamo un po’ l’Unione Sovietica”. Ma, nella lotta dei Cervi per il progresso materiale e culturale, c’è anche l’orgoglio del contributo che la propria famiglia offre all’Italia, una nazione così frustrata e vilipesa da una classe dirigente incapace anche solo di pensare al cambiamento: le vere forze produttive, il vero motore economico dell’Italia, non sono i padroni, per lo più fascisti e reazionari sempre, ma le braccia e il cervello di chi fatica sul campo mettendo in atto le innovative conoscenze apprese sui testi. Intanto, mentre i fascisti comandano, la famiglia Cervi, in particolare a partire dalla fine del 1941, diviene uno dei centri di aggregazione e organizzazione della Resistenza emiliana. Soprattutto Aldo si nutre di pane e politica: con grande rischio, la sera si reca nelle dimore dei contadini e diffonde giornali e materiale di propaganda comunista. Ma la cooperazione di tutta la famiglia è indubbia, così come la sua unità. È il modello della società delle api, che, tanto positivo nell’attività lavorativa, diviene un’arma vincente anche in quella politica: “Ferdinando (il quintogenito, n.d.r.) aveva passione per le api perché ci vedeva la società giusta, organizzata nel lavoro, come quella sovietica, diceva.”. Forse anche perché quei sette figli erano uno per tutti e tutti per uno. L’intera famiglia, anzi, era un’unità compatta: lo si capisce anche dalla suggestiva foto di copertina, in cui tutti i componenti del gruppo indossano il “vestito buono”, a voler rimarcare la solennità del momento. Così, il carcere tocca pure a Gelindo, per due volte, e a Ferdinando stesso; da parte sua, Ettore, l’ultimo dei nati in casa Cervi (1921), si adopera in molteplici azioni di propaganda. Presto, comunque, altre donne e uomini di buona volontà, ben pronti a offrire il proprio contributo alla causa antifascista, si uniscono ai protagonisti e, dopo il 25 luglio del '43 e l’armistizio di Cassibile, molti prigionieri evasi, anche stranieri: inglesi, americani, russi, neozelandesi tanto che, sottolinea ironicamente Alcide, “...se prima la casa sembrava una caserma, adesso somigliava alla società delle Nazioni”. In generale, quello dell’Emilia Romagna è un contesto in cui “fischia il vento” e l’opposizione al regime sale da parte delle più svariate forze sociali, come ricorda anche lo storico Casali nell’Introduzione (pagg. IX-X): militanti dei partiti di sinistra, cattolici popolari (lo stesso Alcide in gioventù aveva aderito al Partito popolare), operai, mezzadri, braccianti, intellettuali e “ceti medi produttivi”. Fondamentale anche il contributo della gente comune: “La popolazione faceva come le sabbie mobili e inghiottiva i soldati per salvarli dai tedeschi”, ricorda Alcide. Uno dei passi più notevoli della narrazione è quello che rievoca con commozione la pastasciutta offerta a volontà ai compaesani su proposta di Aldo, per festeggiare la destituzione del duce: “... intanto la pastasciutta è cotta , e colmiamo i carri con le pile. Per la strada i contadini salutano, tanti si accodano al carro, è il più bel funerale del fascismo”. Ma gli eventi sono incalzanti, è il tempo della lotta contro i “rospi verdi” (così vengono chiamati i tedeschi da Alcide) e i fascisti, presto riemersi “come scarafaggi” dalle buche in cui si erano nascosti subito dopo il 25 luglio. Inizia la vera e propria resistenza. Purtroppo l’attività partigiana dei Cervi, attività che si esplicitava in vere e proprie azioni di guerriglia, talora anche eclatanti, prima sull’Appennino reggiano e poi ai «Campi Rossi», ebbe breve vita: troppo esposti i membri di questa famiglia per non divenire rapidamente un obiettivo da eliminare, con i fascisti ansiosi, tra l’altro, di far pagare a caro prezzo quel memorabile festeggiamento a base di pastasciutta. Così il 25 novembre 1943, con un’azione notturna violenta e distruttiva, una squadraccia di circa 150 unità (“erano venuti in 150 uomini per prenderci”) circonda la casa Cervi e, dopo averla data in parte alle fiamme, costringe i giovani fratelli e il padre ad uscire. I nostri protagonisti vengono incarcerati nella prigione di San Tommaso e, il 28 dicembre 1943, Gelindo (1901-1943), Antenore (1904-1943), Aldo (1909-1943), Ferdinando (1911-1943), Agostino (1916-1943), Ovidio (1918-1943) e Ettore (1921-1943), insieme a Quarto Camurri (originario di Guastalla, 1921-1943), vengono fucilati dai fascisti al poligono di tiro di Reggio Emilia. L’8 gennaio 1944, nel corso di un bombardamento americano, Alcide, che era rimasto in carcere ignaro della sorte dei figli, riesce a fuggire dalla detenzione e a ritornare in casa. La moglie Genoveffa e gli altri familiari lo accolgono con immensa felicità e per qualche tempo gli risparmiano la tremenda notizia della fucilazione, di cui erano venuti a conoscenza qualche tempo prima. Genoveffa non riesce a vedere l’Italia liberata, per la quale così tanto aveva dato, e muore “per crepacuore” il 14 novembre 1944, non potendo reggere il peso di una vita divenuta ormai forse priva di senso. Alcide rimane così con le quattro nuore e gli undici nipoti e diviene la testimonianza vivente dell’eroismo antifascista. Muore il 27 marzo 1970. In questa nuova edizione proposta da Einaudi, molto interessante è l’Introduzione dello storico Luciano Casali, il quale, con rigore e precisione, traccia un quadro complessivo della vicenda, dalle origini di Alcide fino alla “ricezione” della storia dei fratelli in età Repubblicana, quando il sacrificio di questi, con il passare degli anni, assurge a paradigma mitizzato della resistenza partigiana. Ricorda lo storico come, oltre ad Alcide, ad avere un ruolo fondamentale nella diffusione del mito dei Cervi sia stato Italo Calvino, che narrò a più riprese, anche dalle colonne de L’Unità, la storia dei fratelli. Un problema spinoso è di certo la questione relativa a quanto il racconto, scritto in realtà da Roberto Nicolai, abbia conservato del linguaggio di papà Cervi. Il Casali cita, tra l’altro, la testimonianza di Maria Cervi, la quale non si ricorda di una presenza frequente di Renato Nicolai a Gattatico (sebbene il Nicolai, nella premessa al testo, pag. 2, affermi il contrario), a differenza di quanto fece Calvino, che, in effetti, nei suoi scritti sull’argomento, ricorse a un linguaggio popolare mutuato quasi certamente dai racconti del vecchio “Cide”. Così, il Casali si chiede se la lingua del testo, più che ispirarsi alle narrazioni di Calvino sull’argomento, non nasca da una reinterpretazione del dialetto reggiano fatta dal Nicolai stesso. Di certo comunque, come da più parti riconosciuto, il valore letterario dell’opera è notevole. Il Casali cerca poi di far luce anche sul ruolo del PCI in merito alla pubblicazione de I miei sette figli. Viene citata in proposito una testimonianza preziosa, quella di Sandro Curzi, che, verso la metà degli anni Cinquanta, aveva un ruolo importante nella Commissione stampa e propaganda del Partito comunista. Il noto giornalista affermava che era stato il partito a volere il libro e che per questo aveva incaricato il Nicolai; addirittura Curzi parla di “lavoro collettivo”, simile a quello che si realizzava quando si dovevano scrivere i discorsi per i comizi importanti: “Nicolai non è un autore personale, fa quel libro per la direzione del partito, su ordinazione della direzione del partito” (citato a pag. XXII). E l’apporto era fornito non certo da oscuri funzionari, ma dalla stessa Commissione e dai vertici del partito: Togliatti e Pajetta, tra gli altri. Ma perché al Partito comunista interessava così tanto avere un ruolo in questa vicenda? Perché, secondo il Casali, il PCI voleva “guidare” la diffusione della storia dei Cervi, una storia che appariva, in fin dei conti, conforme alle linee ideologico-culturali della politica togliattiana, per la quale il punto di riferimento cui richiamarsi nella lotta di classe doveva essere rappresentato non già dagli istinti rivoluzionari più radicali, ma da quel riformismo graduale tanto caratteristico del mondo contadino, un mondo che era stato ed era capace di coniugare cattolicesimo e comunismo ed è noto quanto Togliatti fosse allora sensibile al tema del dialogo con i cattolici. Insomma, secondo il Casali, con il libro sui fratelli Cervi, il PCI voleva ancorarsi alla tradizione nazionale, che univa Risorgimento e Resistenza, e soprattutto voleva indicare un percorso politico determinato, poiché “proprio seguendo gli insegnamenti di quella storia familiare, era possibile e necessaria una sintesi...fra comunisti e cattolici...”(pag. XXIII). È importante, da questo punto di vista, la lettura della Conclusione di Alcide: “...se fosse vero che cattolici, comunisti e socialisti non possono andare d’accordo, allora è distrutta la storia della mia famiglia, che se ha fatto qualcosa di buono, l’ha fatto perché aveva questa forza delle due fedi” (pag. 109). Comunque, come afferma lo storico ricorrendo alle parole di Curzi, quella del PCI non fu certo una strumentalizzazione, cosa di cui è stato troppo facilmente accusato il partito. Anzi, questo libretto, proprio perché di maggior diffusione e meno politicizzato di un comizio, riuscì a diffondere e a far conoscere la storia dei Cervi ad un pubblico assai vasto, anche straniero, essendo stato tradotto in molte lingue (ben quattordici), visto anche il suo valore letterario sancito da significativi riconoscimenti. Il Casali, infine, prende in considerazione anche un’altra questione, una sorta di giallo letterario: le notevolissime differenza tra le edizioni del libro del 1955 e quelle successive al 1971, quando papà Cervi è ormai morto. Se nella prima Alcide, da buon comunista, dichiara più volte uno spinto anti-americanismo e la propria simpatia per la Russia stalinista, nelle seconde, attraverso una certosina opera di censura e riscrittura, che elimina tutti i riferimenti al comunismo e a ciò che ad esso era legato, i Cervi sono diventati “semplicemente” degli antifascisti democratici. Il Casali non è riuscito a chiarire chi abbia veramente realizzato questa pesante alterazione, anche se è convinto che abbia avuto parte in questo non certo solo la casa editrice (Editori Riuniti), ma lo stesso PCI, del resto ampiamente avviato, dopo la svolta marcata all’VIII Congresso (1956), nel sentiero della destalinizzazione. Il Casali, richiamandosi allo studio dettagliato di Eva Lucenti, propone il confronto di parti del testo prima e dopo l’operazione di cambiamento, cita alcuni passaggi (filo-sovietici e anti-americani) completamente eliminati e arriva a concludere che, se da un lato i Cervi così “reinventati” risultarono allineati alle tendenze politiche del PCI del “disgelo”, dall’altro “il senso generale del libro venne a cambiare sostanzialmente” (pag. XXVIII), scomparendo soprattutto quelli che erano gli orientamenti bolscevichi dei nostri protagonisti e, più in generale, della maggioranza dei partigiani italiani durante la Resistenza e dopo. È opportuno a questo punto sottolineare che l’edizione ora riproposta dall’Einaudi è quella originaria del 1955, e questa scelta, come dichiarato nell’Introduzione, ha il fine di restituire i termini storici reali, oltre che, naturalmente una più corretta ricostruzione della biografia della famiglia Cervi. Completano l’opera una preziosa nota bibliografica e una parte del discorso tenuto da Piero Calamandrei il 17 gennaio 1954 in occasione della commemorazione dei sette pfratelli. La vicenda dei fratelli Cervi è la stessa vicenda di molti partigiani che, nella fase forse più grande della storia d’Italia, i venti mesi della resistenza, hanno vissuto moltissime donne e uomini oppositori del fascismo, ma la drammaticità dell’uccisione in un sol colpo di sette giovani appartenenti tutti alla stessa famiglia ne ha fatto uno degli esempi più fulgidi e drammatici della lotta contro la barbarie nazi-fascista. Eppure Alcide Cervi, il capofamiglia sopravvissuto alla strage, non si sentiva per questo maggiormente meritevole rispetto alle altre vittime del fascismo: a una madre che aveva perso un figlio e a cui la sua perdita sembrava meno dolorosa rispetto all’annichilimento della famiglia Cervi, Alcide rispondeva con straordinaria fratellanza: “Tu ne avevi uno, e quello ti hanno preso. Io ne avevo sette, e sette me ne hanno presi. È lo stesso, non c’è diversità”. Questa era l’umanità della famiglia Cervi. Condividi