Di Matteo Patrono Uomo di sinistra e di corrida Vicente Del Bosque ha messo in piedi la squadra più forte e creativa di questi Mondiali. Ha trasformato il tiqui-taca, il gioco lisergico e stordente dei suoi palleggiatori, in «calcio collettivo» dove il gruppo conta molto più delle singole stelle. Con tanti baci da Iker Casillas L'immagine simbolo del primo trionfo mondiale della Spagna resterà quella della panchina iberica che si svuota al gol di Andrés Iniesta, minuto 116, e un uomo solo al comando che resta lì immobile, impassibile, col suo giaccone scuro e la cravatta rossa che penzola nell'aria gelida e stravolta di Soccer City. Poi siccome restano tutti laggiù alla bandierina a festeggiare come matti, giocatori, massaggiatori, magazzinieri, lui fa una decina di passi e arriva fino alla panchina dell'Olanda. Ed è lì che inaspettatamente, forse per la prima volta in vita sua, perde le staffe. Comincia a urlare. «Tornate in campo cabrones, non è mica finita». Porta l'indice della mano alla tempia e strilla ancora. «La testa, usate la testa». Quelli obbediscono, respingono gli ultimi disperati assalti degli olandesi imbufaliti e finalmente, al 123', liberano la felicità residua in un mare di lacrime, bandiere, capriole. Lui, Vicente Del Bosque, mostra i pugni e abbraccia i suoi collaboratori. Quindi si alliscia i baffoni, circumnaviga la panchina e va a rilasciare la prima intervista da ct campione del mondo. Niente sigaro alla Paul Newman. Basta il sorriso equilibrato e sereno di questo anziano signore di Salamanca, un Bearzot di Castiglia. «Sono felice, il merito è tutto di questi giocatori fantastici. La vittoria è una ricompensa per il loro fútbol di qualità». Ha vinto la squadra più forte e creativa, cosa che non sempre capita nel calcio. Avrebbe potuto vincere anche la cinica Olanda che però alla fine è rimasta vittima del suo stesso cinismo, mancando il più facile dei gol in contropiede e chiudendo la partita con nove cartellini gialli e uno rosso, un tabellino degno di un match di boxe o di karate. Distruggere, picchiare, chiudere ogni spazio, un piano scientifico molto poco olandese che Johan Cruyff indignato ha definito «laido, volgare, ermetico. Come quello praticato dall'Inter di Mourinho contro il Barcellona». Le furie rosse hanno patito la carognaggine di Van Bommel e compagni, si sono innervosite (cinque ammoniti, soltanto tre nel resto del torneo), hanno ricamato meno del solito. Ne è uscita una finale scorbutica, non bellissima ma comunque cento volte più viva e interessante di Italia-Francia 2006. La Spagna l'ha fatta sua grazie al più tecnico dei suoi piccoli e geniali centrocampisti, Iniesta, calatosi nei panni del centravanti implacabile quando i calci di rigore sembravano ormai inevitabili. Un bambino di Fuentealbilla che a 11 anni si trasferì all'accademia miracolosa del Barcellona, La Masia, e lì incontrò un altro pigmeo dal piede fatato, Xavi Hernandez, col quale da allora forma la coppia più celestiale del calcio moderno. Mentre Xavi ha sventolato la bandiera della Catalogna in giro per il campo insieme a Pujol, Pique e i catalufos della squadra, Iniesta ha festeggiato il suo gol mondiale con una dedica sotto la maglietta a un altro ragazzo catalano, Daniel Jarque. Difensore dell'Espanyol (la squadra povera e sfigata di Barcellona) e amico d'infanzia, morto lo scorso anno in Italia per un infarto improvviso mentre era al telefono con la fidanzata, il compagno triste, solitario y final della generazione d'oro del calcio spagnolo. Una gioventù senza complessi, sostiene Zapatero, che si è liberata dei fantasmi del fatalismo iberico, l'immagine della Spagna innovatrice, allegra e solidale del ventunesimo secolo. Anche se il paese che ha accolto i suoi eroi ieri pomeriggio a Madrid, è nel pieno della recessione economica e infatti il capitano Iker Casillas, il primo portiere dopo Zoff ad alzare la coppa, quello che al gol di Iniesta ha pianto come un bambino e poi in sala stampa ha baciato la fidanzata giornalista con la sfrontata passionalità di un film di Almodovar, ha dedicato il trionfo a quanti hanno perso il lavoro e fanno i conti con la crisi e l'austerità, altro che i mondiali. Tanto che il tiqui-taca, il calcio lisergico e stordente dei palleggiatori di Del Bosque, ha già cambiato nome. Ora lo chiamano fútbol asociación, il calcio collettivo dove il gruppo conta molto più delle stelle che lo compongono. Chiosa Don Vicente, figlio di un ferroviere anti-franchista, uomo di sinistra e di corrida. «Nello spogliatoio avevamo l' immagine di un torero che viene ferito e di tutti gli altri forcados che lo circondano per proteggerlo: ecco, noi siamo quelli. Felici di avere unito il paese delle comunità autonome». Mentre i neo-campioni del mondo lasciavano Johannesburg per far ritorno a casa, il Sudafrica si è svegliato dal grande sogno atteso sei anni e volato via in un mese di euforia e riconciliazione nazionale. We did it, ce l'abbiamo fatta, l'Africa ha dimostrato di poter ospitare il mondo. E ora? Ora, una volta passata la sbornia, arriverà il momento di capire davvero se valeva la pena spendere 4 miliardi di euro per giocare a calcio col resto del pianeta. È una domanda su cui la coscienza critica del paese (la società civile, una parte dei media, il mondo della cultura) s'interroga da tempo, a dimostrazione che oltre che una nazione arcobaleno, questa è anche una nazione che parla e si confronta con se stessa. Una nazione che spera di aver iniziato una nuova era e che domenica sera, allo stadio, ha salutato il suo vecchio leader in quella che molti temono esser stata l'ultima apparizione pubblica di Nelson Mandela. Dicono che tifasse per l'Olanda in ricordo di quel grande campione nero che nel 1987, quando lui era ancora rinchiuso a Robben Island, gli dedicò la vittoria del Pallone d'oro. Ruud Gullit però non gioca più e allora considerato il freddo, Madiba ha salutato il suo popolo, il mondo intero ed è tornato a casa. Dal sito il manifesto.it Condividi