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di Anna Maria Bruni Memoria e connessione delle conoscenze, azione congiunta delle istituzioni. Tutto quel che è stato elaborato in passato, e perché ha potuto tradursi in azione concreta. Ciò che manca oggi, nonostante i dati noti e le tante ricerche, e le battaglie su molti fronti ROMA - E’ il 17 novembre del 2008 quando il Gup accoglie la richiesta del Pm Raffaele Guariniello, che in soli tre mesi ha svolto le indagini sulla tragedia della Thyssen Krupp di Torino, di “omicidio volontario con dolo eventuale”. I vertici dell’azienda sono accusati non solo del mancato adeguamento dei sistemi di sicurezza, ma della consapevolezza del rischio di incidente in mancanza di dispositivi a norma. Per la prima volta in Italia ci sarà un processo per omicidio volontario legato alle morti sul lavoro. E’ un risultato storico, che avviene nel deserto di un’azione congiunta delle istituzioni. Infatti, quante morti sono dimenticate o lottano per uscire dal silenzio e dalla solitudine, quando non dall’omertà che le circonda? I numeri Sono tante. Dal 1 gennaio ad oggi 28 febbraio, in due mesi, 82 sono gli incidenti mortali sul lavoro. Senza contare i tanti morti per malattia professionale. Caso Eternit: 2.056 morti e 830 i malati colpiti dall’amianto censiti durante la maxi inchiesta curata dallo stesso pm Guariniello, che “ha chiesto il rinvio a giudizio per disastro doloso e omissione volontaria di misure antinfortunistiche”, come riporta Manuela Cartosio sul «manifesto» del 17 ottobre 2008. Qui la magistratura arriva a seguito di un comitato di lotta costituitosi dagli inizi degli anni ’80, che ha cementato lavoratori e cittadini di Casale Monferrato, uniti dalla condivisione delle conseguenze provocate dall’amianto in fabbrica e nel territorio. Poi vanno aggiunti gli infortuni. Che secondo l’Inail sono 912.615 nel 2007.1.170 quelli mortali (ultimi dati disponibili dal Rapporto annuale del 2007. Ma è l’Inail stessa ha dichiarare che moltissimi infortuni non vengono denunciati all’istituto assicurativo: i lavoratori precari o i migranti, entrambi sottoposti al ricatto della necessità di non perdere il posto di lavoro (secondo una ricerca Ires, l’Istituto di ricerca della Cgil, i lavoratori migranti in edilizia sono 239.950, il 12,6% del totale nel 2006, e secondo i dati Fillea nel 2007 si sono registrati 39 morti fra gli immigranti su 235 complessive, il 16%. “I lavoratori stranieri nel settore edile” http://www.ires.it/node/587). O le mancate denunce da parte delle stesse ditte, che preferiscono tenere a casa pagato un dipendente per evitare di far scattare l’aumento del contributo Inail e rendere la ditta più esposta ad un eventuale controllo. E Rino Pavanello, Segretario nazionale dell’Associazione Ambiente e Lavoro, nello stesso contenitore denuncia i dati delle Asl preposte al controllo, a fronte del numero di aziende, su tutto il territorio: 853 Medici del lavoro (1 ogni 7.000 aziende circa), 266 tecnici laureati (ing., chimici, biologi, ecc.) (1 ogni 22.000 aziende circa) 2.150 tecnici delle prevenzione (non laureati), (1 ogni 2.790 aziende circa). Mentre Marco Bucciantini e Roberto Rossi, in un’inchiesta sulle morti per lavoro su “l’Unità” del 26 ottobre 2008, riportano che gli Ispettori del lavoro sarebbero 6.500 per oltre 6 milioni di aziende (dato Unioncamere). Conclusione: la cometa di Halley passa più spesso. E noto è il caso di quell’indiano abbandonato morente in un campo proprio dal datore di lavoro (la vicenda è ricostruita sul sito web di Articolo 3, per evitare la denuncia. Se non lo avessero visto, quella sarebbe stata una delle morti di cui non si viene a sapere. E’ la stessa Commissione parlamentare di inchiesta sugli infortuni sul lavoro a rilevarlo, individuando nel fenomeno del caporalato, in espansione, proprio quell’anello di congiunzione che di fronte alla giustizia improvvisamente sparisce. “Alcuni ‘caporali’ – si legge nel rapporto finale 2006 – non solo reclutano manodopera, ma fungono anche da intermediari nell’erogazione del salario. Si registra persino il disumano fenomeno dell’abbandono dell’infortunato grave che operava senza essere iscritto al libro paga” . Il rapporto della commissione rileva poi come il rischio di infortuni nelle piccole imprese sia più alto. E’ lì che si concentrano gli infortuni nei primi giorni di lavoro, lì dove si concentra l’assenza di formazione. Le cause Leggendo i dati Inail sugli infortuni mortali suddivisi per attività economica e per anzianità in azienda, colpisce come il numero dei morti nel primo giorno di lavoro sia uguale a quello dei morti nei primi 6 mesi, che tocca l’apice nel settore delle costruzioni, - quello che vede il maggior numero di morti complessivi – dove si rilevano 52 morti nel primo giorno di lavoro, dato che si ripete nel periodo che va da 6 mesi a un anno (Indagine integrata per l’approfondimento dei casi di infortunio mortale, maggio 2006, http://www.inail.it). L’inchiesta che Marco Rovelli ha tradotto nel libro “Lavorare uccide” rileva la costante della mancanza di formazione, che si traduce in più casi nell’infortunio mortale proprio durante il primo giorno di lavoro, o a neanche un mese dall’assunzione. E’ il caso di Pasquale Costanzo, 23 anni, morto il 31 gennaio 2000, durante il primo giorno di lavoro a ciclo continuo mentre scavava la galleria di Vaglia, . Le lotte successive hanno ottenuto l’abolizione di quella pratica massacrante che è il ciclo continuo. O di Matteo Valenti, 23 anni, assunto il 10 ottobre e morto l’8 novembre 2004 alla Mobiliol di Viareggio, nell’incendio provocato dall’uso di solventi ai quali era stato messo a lavorare senza alcuna formazione. La madre, la famiglia, gli amici, i cittadini che credono nell’impegno civile si sono battuti per Matteo, costituendo un comitato permanente contro gli omicidi bianchi. Dunque, carico di lavoro eccessivo, assenza di controlli, assenza di formazione. E la catena infinta di appalti e subappalti che la rende praticamente impossibile. Lo rileva il sociologo Luciano Gallino su «Repubblica» del 27 novembre 2006: “La frammentazione pianificata dei processi produttivi in imprese e squadre di lavoro sempre più piccole, collegate da lunghe catene di esternalizzazioni a cascata e subappalti, disincentiva la formazione alla sicurezza. E in molti casi la rende tecnicamente inattuabile”. E’ il caso di Joubert Thomson, precipitato da un ponteggio nel Polo nautico di Viareggio, una catena infinita di appalti: 223 dipendenti diretti contro i 1.477 delle 251 ditte appaltatrici (dato dell’Ufficio provinciale del Lavoro dopo un’ispezione del 2003, anno della morte di Thomson, pubblicato nell’inchiesta di Rovelli). E va da sé che in queste ditte i lavoratori più adattabili sono gli interinali. Secondo un’indagine realizzata da Ispesl e Cgil, il 73% degli interinali dice di non essere mai stato informato sui rischi connessi al lavoro affidatogli, e il 60% non sa neppure se nell’azienda esista il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (la ricerca è scaricabile dal sito web della Camera del lavoro di Roma centro. Era un’interinale di 21 anni Jasmine Marchese, morta il 17 settembre 2007, schiacciata sotto una pressa di 10 quintali urtata dalle pale di un muletto in movimento perché non fissata a terra, alla 3B di Salgaredo, Treviso, dove fra interinali e “soci” di cooperative sono almeno il 30%, dice Rovelli. I lavoratori erano in tanti al suo funerale, ma poi sono tornati al lavoro, e dicono che “la pressa non è stata ancora fissata a terra”. Mancanza di informazione sul proprio lavoro, assenza di sicurezza, assenza di manutenzione. E’ il caso di Andrea Gagliardoni, 23 anni, morto all’Asoplast di Orezzano, Ascoli Piceno, schiacciato da una macchina difettosa accompagnata da una certficazione falsa, e privata del sistema di sicurezza per farla andare più veloce. Omicidio colposo. Per Andrea ha combattuto la madre, i suoi colleghi hanno paura di testimoniare. E’ il ricatto del posto di lavoro. Ed era una ditta d’appalto la Manili spa che di sabato, il 25 novembre 2006 stava saldando le passerelle sui serbatoi dell’Umbria Olii senza che fossero stati svuotati dei gas per velocizzare il lavoro, quando si è verificata l’esplosione che ha provocato 4 morti e danni ambientali per infiltrazione nel terreno fino all’acqua del Clitunno, a Campello, provincia di Perugia. Ma qui il processo non è ancora partito, nonostante le evidenze. Qui l’ad Giorgio Del Papa ha fatto causa ai periti del Pm, e ha chiesto lui il risarcimento (35 milioni di euro) alle famiglie delle vittime. I “suoi” operai hanno bisogno di continuare a lavorare, devono mandare avanti l’azienda. Quando la Cgil è andata in fabbrica a dire che si doveva ripartire solo se messa in sicurezza, i lavoratori hanno risposto che volevano ripartire comunque. Eppure l’Umbria Olii ben coaugula le cause di rischio: nessuna formazione, nessuna misura di sicurezza, nessun controllo, straordinari, fretta, nocività. E omertà. Anche qui la consapevolezza sociale appartiene più ai familiari e al territorio, che non ai lavoratori stessi della fabbrica. La memoria Eppure il risanamento e la tutela dell’ambiente “possono trovare una positiva e radicale soluzione solo con interventi e lotte che vadano alla radice del problema, la fabbrica: vadano cioè alla profonda trasformazione dei suoi cicli produttivi, attraverso lo sviluppo di ricerche, progettazioni e sperimentazioni a ciò finalizzate”. Lo scrive Luigi Mara, lavoratore delegato del Cdf della Montedison di Castellanza, intervenendo su un numero della rivista sindacale «Azimut» dedicato alla memoria di Giulio Maccacaro. Medico epidemiologo, Maccacaro fondò alla fine degli anni ’60 il Centro ricerche per la salute e poi Medicina democratica, e accompagnò e diffuse le conoscenze mediche rivolte all’indagine dei rischi della salute e della sicurezza nei posti di lavoro attraverso la rivista «Sapere», dove riuscì a coagulare interventi di medici, scienziati, sindacalisti e lavoratori impegnati nella diffusione della conoscenza, tra tutti i lavoratori, del processo produttivo del quale erano parte, perché fossero consapevoli dei rischi connessi e potessero battersi per la qualità del lavoro. E proprio il gruppo Pia (Prevenzione igiene ambientale) del Cdf di Castellanza praticò questa esperienza, traducendola in lotte che arrivarono a mettere in discussione il processo produttivo con controproposte di altissimo livello. Ma per arrivare a questo la strada era stata lunga, cominciata negli anni ’60 con una fortissima collaborazione tra medici di fabbrica e sindacalisti. E’ di quegli anni il documento “L’ambiente di lavoro” elaborato da Ivar Oddone, medico di fabbrica alla quinta Lega Mirafiori, insieme a Fiom, Fim Uilm (documento pubblicato dall’autore su www.articolo21.info, sezione sicurezza sul lavoro). Il principio su cui si basa è la “non delega” perché solo attraverso l’acquisizione chiara del lavoratore di tutto ciò che concorre al processo di produzione e all’organizzazione del proprio lavoro, è possibile attivare la consapevolezza di tutti quegli elementi di rischio che da soli o incrociati con altri elementi provocano gli infortuni, o sono l’inizio delle malattie professionali; e solo con “l’osservazione spontanea” ma attiva del lavoratore, ogni giorno a contatto con strumenti, macchinari, materiali che fanno parte del ciclo produttivo è possibile comprendere i problemi e intervenire. Ed il principio del protagonismo sta anche nel linguaggio. “Noi preferiamo – si legge nel documento - alla definizione di “valori limite di concentrazione”, quella di M.A.C, o “massimo accettabile di concentrazione” in quanto questo termine indica una partecipazione di chi subisce gli effetti nocivi e cioè del gruppo operaio interessato”. E la pratica della conoscenza e della trasformazione ha come obiettivo il “Mac zero”, cioè nessuna nocività. Ovvero trasformazione del processo produttivo attraverso il parametro “uomo”, dimostrando come la nocività in fabbrica e l’infortunio mortale non siano due questioni distinte. E purtroppo anche la vicenda di Antonino Mingolla, morto all’Ilva di Taranto il 18 aprile 2006, cui dà voce la moglie Francesca Caliolo (Vivere e Morire all’Ilva di Taranto, «il manifesto», 30 dicembre 2008), lo ha dimostrato. L’inchiesta che la Fiom ha svolto nel corso del 2007 ha ridato voce ai lavoratori (La voce di 100.000 lavoratrici e lavoratori, www.fiom.cgil.it). Nella sezione dedicata all’ambiente fisico e alla sicurezza e poi alle condizioni di salute il 40% dei lavoratori indica la propria salute compromessa per le condizioni di lavoro e il 75% degli operai e il 50% degli impiegati imputano la ragione all’organizzazione del lavoro. Il segretario nazionale Fiom Giorgio Cremaschi, responsabile salute e sicurezza, nel corso dell’assemblea nazionale dei Rls Fiom svoltasi a Torino l’8 aprile 2008, traduce questi dati in indicazioni precise, come l’applicazione del Testo unico (d.lgs.81/08) per quel che riguarda l’estensione della valutazione dei rischi a tutte le nocività, il diritto di allontanarsi dalla postazione di lavoro se in presenza di rischi senza conseguenze sanzionatorie, una piattaforma sulla sicurezza in tutte le vertenze aziendali aperte, l’applicazione della trasparenza negli appalti, limiti contrattuali sullo straordinario, bilancio salute-sicurezza in tutti i siti, esclusione di qualsiasi tentativo di monetizzare la salute e i rischi. Inoltre tutela delle iniziative degli Rls, azione legale e costituzione di parte civile, lavoro di formazione che accompagni quella istituzionale, attivazione di sportelli di consulenza, avvio di una campagna di sensibilizzazione dell’opinione pubblica (la relazione è reperibile su www.fiom.cgil.it, sezione salute e sicurezza). Da parte della Magistratura invece è il pm Raffaele Guariniello che, rilevando la diversità con cui casi simili vengono trattati, solleva la necessità di un fronte d’intervento che li accomuni sul piano giudiziario. Sua è la proposta di una Procura nazionale sulla sicurezza sul lavoro. I mass media, scossi dall’appello del presidente della Repubblica Giorgio Napoletano perché le morti sul lavoro siano un’urgenza sociale, accanto alla battaglia che il quotidiano “Liberazione” ha condotto portando in prima pagina il tema, ancora possono fare molto, evitando di considerare notizia solo la tragedia avvenuta, ma tornando a seguire e a cucire insieme i fatti e l’impegno sul fronte sindacale, giudiziario, civile, perché l’ “atto manifesto” non sia più la notizia di una morte sul lavoro, bensì il fronte comune che una società civile ricostruisce, perché la lotta per la salute e la sicurezza e un ambiente sano costituiscano il momento centrale di una positiva trasformazione della società che rimetta al centro l’uomo e il suo lavoro come elemento di emancipazione. Da Dazebao.org Condividi