donne al lavoro tessile.jpg
E’ di giovedì la decisione del Consiglio dei ministri :da gennaio del 2012 le lavoratrici del pubblico impiego matureranno il diritto ad andare in pensione di vecchiaia solo al compimento dei 65 anni. Quel diritto si potrà esercitare dopo un anno,dunque al compimento dei 66 anni. E’ questo l’effetto ulteriore dello “spostamento della finestra” introdotto nella finanziaria che stabilisce per tutti l’obbligo di andare in pensione un anno dopo il raggiungimento dei requisiti. Nei primi anni di quei 6 in più decisi ieri,le retribuzioni non aumenteranno di una lira per effetto del congelamento degli stipendi previsto sempre dalla finanziaria per tutti i lavoratori del pubblico impiego. Nonostante più anni di lavoro per quelle donne non aumenterà quindi neppure l’importo della pensione ,con una perdita rispetto alla situazione attuale non recuperabile: parliamo di persone per le quali ,data l’età ,vigeva ancora il regime previdenziale retributivo,quello cioè precedente al 1995 che legava la misura della pensione a quella della retribuzione degli ultimi anni. In una sola Finanziaria dunque la somma di più misure realizza una aggressione violenta contro le donne,come ricordava Elettra Deiana nel suo articolo di ieri :una aggressione che il governo ha buttato tutto sulle spalle dell’Europa. La verità sulla sentenza della Corte Europea L’Italia era stata bollata a novembre 2008 dalla Corte Europea di giustizia per il regime pensionistico dei dipendenti pubblici che fa capo all’Istituto previdenziale che si chiama Inpdap:la differenza nell’età pensionabile tra uomini(65) e donne(60)violava a d avviso della Corte la parità di retribuzione tra i due sessi. La Corte è partita dal presupposto che l’Inpdap sia una Cassa professionale istituita dal datore di lavoro (lo stato) e che quindi la pensione sia una sostanziale prosecuzione della retribuzione:da qui discenderebbe la discriminazione della lavoratrice,collocata “a riposo” prima del lavoratore. In realtà l’Inpdap è un Istituto di previdenza pubblica al pari dell’Inps,ed entrambi gli Istituti prevedono attualmente per le donne la possibilità,non l’obbligo, di andare in pensione di vecchiaia a partire dai 6o anni.La legge italiana prevede il diritto di lavorare fino alla stessa età degli uomini(in base all’art.4 della legge 903/77 sulla parità di trattamento);nel pubblico impiego poi le donne possono proseguire a lavorare fino a 67 anni (decreto legislativo 503 del 1992). Questi insieme ad altri chiarimenti potevano essere portati dal governo italiano alla Corte europea. Poteva essere sottolineato che l’età reale di pensionamento delle donne italiane è più alta di quella degli uomini,che godono della pensione di anzianità:quella che difficilmente le donne riescono a maturare per l’entrata e l’uscita dal mondo del lavoro per maternità e poi per accudire i figli e i genitori anziani. Che le pensioni delle donne italiane sono più basse perché oltre ad entrare e uscire dal mercato del lavoro, fanno lavori meno pagati e dunque il problema vera in tema di parità è la differenza salariale tra le retribuzioni maschili e quelli femminili. Che infinite statistiche mostrano come le donne lavorino molte ore per la cura della famiglia,ore che si aggiungono al lavoro produttivo. Il paradosso dunque è che il lavoro produttivo delle donne è pagato meno di quello degli uomini,quello riproduttivo è misurabile come percentuale di Pil nazionale, su di esso si fa conto per compensare la riduzione dei servizi pubblici,ma non è riconosciuto socialmente:fino ad oggi al posto del riconoscimento sociale valeva il risarcimento attraverso la differenza di età nell’accesso alla pensione, come ricordava anche in questo caso Elettra Deiana nell’articolo già citato. Che a differenza della maggior parte dei paesi europei ,l’Italia è un paese ostile alle donne, avaro di servizi pubblici che aiutino la conciliazione lavoro /maternità (basti guardare i dati sull’abbandono del lavoro dopo la maternità),sessista nella rappresentanza. La verità è che il Governo sceglie di fare cassa sulla previdenza e che il conto,salatissimo, lo fa pagare a tutto il mondo del lavoro,oggi particolarmente ai pubblici dipendenti e alle donne. Giovani e donne sono dunque le vittime principali della politica economica tremontiana. Non è l’oggetto di questi brevi note il commento dell’intera manovra finanziaria,ma una considerazione generale ha senso comunque proporla:sbaglieremmo se la lettura della manovra si limitasse alla contestazione di ogni suo singolo pezzo. Quella contestazione va fatta e sotto le pieghe di ciascun comma si scopriranno dettagli capaci di illuminare un’intera filosofia,come il taglio dell’uso dell’auto propria ai dipendenti pubblici anche se con mansioni di ispettori,il che equivale ad un calcio negli stinchi all’azione di prevenzione e sanzione dell’evasione contributiva,a proposito di lavoro nero. Ma seppur tutti commi della manovra vanno analizzati ,non può sfuggire una lettura del testo affiancando ad esso tutto il corpo di provvedimenti che dall’insediamento del governo ad oggi sono stati presi ,con voti di fiducia e decreti ,o annunciati :per ridurre gli spazi di libertà nel lavoro;aumentare la discrezionalità nei rapporti di lavoro come unico strumento offerto alle imprese per la competitività;ridurre i salari ;svuotare il contratto nazionale;cancellare diritti sociali attraverso il taglio di risorse agli Enti locali;modificare l’intero Statuto dei lavoratori,oltre che il suo articolo 18. Fin dal primo giorno dell’insediamento del Governo,quando venne abrogata la legge 188/2007 contro “le dimissioni in bianco”,il primo atto di dichiarazione di guerra contro le donne. Per il bene delle donne Ma la scelta dell’innalzamento dell’età pensionabile a 65 anni non solo è scaricata sulle spalle dell’Europa.E’ anche verniciata di pittura velenosa:qualcuno sostiene che si tratti di un atto necessitato ma che farà il bene delle donne ,un atto contro le discriminazioni viene detto. Di più,mentre il ministro Sacconi si affanna a dire che non riguarda il settore privato,altri pensano che l’opportunità non vada sprecata. La Confindustria da tempo rivendica nuove regole previdenziali in aggiunta alle misure già prese in precedenza ,quelle di aggancio dell’età pensionabile all’allungamento della vita media e in aggiunta alle misure presenti nella attuale finanziaria ,di cui già si diceva .Una richiesta che sfiora il paradosso nel vivo di una crisi che le imprese (e anche la pubblica amministrazione)affrontano espellendo lavoratori ,prime fra tutte le lavoratrici;tagliando gli organici (scuola ,pubblico impiego);licenziando i precari. Altrettanto paradossale se si guardano i solidi bilanci degli enti previdenziali :una richiesta che si spiega soltanto con la scelta di scaricare sulle persone la ricerca di risorse per il debito pubblico,per fare cassa come si dice sinteticamente. Eppure la bandiera “ideologica” del bene delle donne,con un’idea patriarcale,tutta a perdere e autoritaria della parità, è una bandiera che da tempo è stata impugnata non solo nel Governo. Anche nell’opposizione vive quell’idea. Anche donne autorevoli la condividono e la promuovono:penso fra tutte ad Emma Bonino. Perché bandiera “ideologica”?Non solo perché i veri problemi dell’equità previdenziale oggi hanno la faccia di giovani donne e giovani uomini a cui oggi si chiede di pagare pensioni la cui entità a loro non sarà mai riconosciuta in virtù della somma di più elementi,(precarietà,coefficienti di trasformazione ,ecc,);non solo perché le discriminazioni come si è già detto hanno altre cause;ma soprattutto perché non è vero che le stesse regole applicate a situazioni differenti realizzano parità. Perchè non è vero per esempio che si possa continuare a lavorare fino alla stessa età a prescindere dal tipo di lavoro che si svolge. Solo la libertà di scelta nell’andare in pensione tra una soglia minima di età e una massima può conciliare esigenze di tenuta del sistema previdenziale e condizione , realtà ,libertà delle persone. Sentire affermare ,dalla parte nostra,che la parità nell’età per andare in pensione è “per il bene delle donne”, fa un po’ impressione e conferma quanto distante sia la realtà delle persone ,la loro quotidianità dall’analisi in provetta e quanto manchi la rappresentanza politica delle donne e del valore del lavoro. Condividi