Niente è banalizzabile nel Congresso appena conclusosi della Cgil. La condizione di straordinaria difficoltà in cui il congresso si è svolto non consente di saltare l’esercizio di provare a cogliere la “verità interna” di ognuna delle posizioni che si è confrontata nel percorso congressuale, e poi a Rimini, a partire dall’indubbia chiarificazione del dibattito congressuale contenuta nella relazione introduttiva di Epifani, dopo l’intervento forse ancora più esplicito fatto al Congresso della Fiom. Non è un’invenzione che nella crisi, le lavoratrici e i lavoratori siano più deboli, che lo sciopero sia più difficile perché perdere il salario tra un periodo di cassa integrazione e l’altra, è esercizio quasi eroico e richiede livelli di consapevolezza altissimi tra le lavoratrici e i lavoratori. Né è un’invenzione che ci troviamo viceversa in una fase in cui questi livelli di consapevolezza non sono dati, per i processi oggettivi e soggettivi andati avanti negli anni, tra frammentazione del mondo del lavoro e pratiche concertative, e che anche le lotte più radicali di questi mesi, restino dunque per lo più confinate in ogni singolo luogo, faticando ad acquisire “coscienza generale”. Nemmeno è un’invenzione la negatività assoluta del quadro politico dell’Europa e dell’Italia: la scomparsa della sinistra dal Parlamento, punita dall’attraversamento subalterno del governo Prodi, come ha ricordato Podda, salvo l’omissione di qualsiasi indagine sulle responsabilità della parte maggioritaria delle forze politiche in campo, e di qualsiasi autocritica sui comportamenti della Cgil medesima. La paura di non farcela, la paura che si compia il disegno di distruzione della Cgil, che non è certo obiettivo misterioso del ministro Sacconi e del governo Berlusconi, negata da tutti e da tutti esorcizzata, è stato in realtà il convitato di pietra del congresso, certo non estranea all’ipotesi avanzata da Epifani nella relazione e nelle conclusioni. Relazioni e conclusioni che avanzano prima di tutto un’analisi del contesto e delle cause della crisi sostanzialmente centrata sull’assenza di elementi regolatori della globalizzazione e smorzano viceversa su un’analisi della crisi come crisi sistemica, esito di un trentennio di neoliberismo, cioè della forma attuale del capitalismo. Sul contesto italiano, rispetto al passato, la nostalgia sottotraccia del governo Prodi, al posto della critica contenuta nel documento congressuale, che sembra archiviare la domanda di fondo che non è con tutta evidenza se il protocollo sul welfare sia migliore delle politiche che sta facendo il centro-destra, ma se quel protocollo e il complesso delle politiche messe allora in campo abbiano qualche relazione con la sconfitta pesantissima subita. Con l’esodo dalla politica che si è consumato di una parte rilevante del corpo sociale di riferimento del centro-sinistra: quel voto alle elezioni del 2008 in cui si è determinata la più alta percentuale di astensione tra gli operai del dopoguerra, mai più recuperata. Sul presente, la sostanziale rimozione del ruolo svolto da Confindustria con la sottesa reiterazione di un giudizio che la vuole interlocutore più disponibile e su posizioni più “avanzate” rispetto a quelle del governo. Una piattaforma “realistica” che ipotizza possibili assunzioni di “responsabilità” sui livelli salariali in cambio di politiche per l’occupazione nel settore pubblico, che non dice di no con nettezza al nucleare e al ponte sullo stretto (poi affermati viceversa dagli ordini del giorno approvati), che parla di fisco in termini di restituzioni a lavoratori e pensionati, senza indicare, da dove le risorse debbano essere prese. Il rilancio del rapporto unitario con Cisl e Uil, cuore dell’intera relazione, che nel nome della proiezione sul futuro circoscrive e smorza sul carattere strategico delle divisioni, né affronta la definizione della proposta di sistema contrattuale che la Cgil porta al confronto con Cisl e Uil, che dunque si ricava, per risulta, dai contratti firmati. Assumendo di fatto come linea quella “limitazione del danno”, in più interventi, anche di maggioranza, giudicata tuttavia impraticabile se assunta come direzione strategica. Nessuna rimozione delle difficoltà è consentita, ma il “realismo” della direzione di marcia indicata, ci pare sia in realtà quanto di meno realistico in campo. E l’esito possibile di mettere a rischio il capitale comunque esistente di consenso e organizzazione, resistenza e conflitto, assai elevato. Perché il quadro è quello riepilogato dall’intervento di Rinaldini. Una crisi che è crisi dell’intero modello sociale, e che ci consegna una condizione di instabilità altissima, in cui la Grecia parla a tutti i paesi europei, perché è l’incarnazione, oltre le vicende specifiche di quel paese, di politiche che scaricano il debito contratto per il salvataggio del sistema finanziario in un attacco ai diritti del lavoro e al sistema di welfare senza precedenti nel secondo dopoguerra. Perché nel contesto della crisi il governo ha un disegno chiarissimo di riscrittura del modello sociale, eversivo della Costituzione repubblicana, contenuto nei vari Libri Bianchi: quello di Maroni del 2001 come quello di Sacconi del 2009, e fondato sulla distruzione della democrazia nel cuore delle relazioni sociali. Con la negazione di ogni diritto e di ogni autonomia del mondo del lavoro, e la sua sostituzione con un modello neocorporativo che si sostanzia nel ruolo degli enti bilaterali: imprese e sindacati gestori della riproduzione sociale e persino di funzioni di pertinenza di altri poteri dello stato, come evidenzia la vicenda del collegato lavoro. Perché Cisl e Uil a questo modello hanno detto sì, forti di un appoggio che continuerà da parte del Governo e di Confindustria, e senza un’iniziativa che punti a battere quel modello, l’interlocuzione non può che esercitarsi su un piano asimmetrico, in cui tutto, dalle “regole” ai rapporti di forza, stanno contro la Cgil. Perché l’attacco va avanti, dallo statuto dei lavori, al federalismo, alla controriforma che si prepara degli ammortizzatori sociali. Fare della Cgil un motore essenziale della costruzione di un movimento di opposizione sociale generale è certo difficilissimo. La sola possibilità realisticamente praticabile tuttavia nel contesto dato. Fare della democrazia uno dei bandoli della matassa da tirare è scelta impegnativa. La sola tuttavia che permetta di battere il disegno neo-corporativo in atto e di rimontare la china delle culture populiste dominanti, tutte fondate sulla delega a capi salvifici come altra faccia della medaglia dell’impotenza di essere attori individuali e collettivi dei propri destini. Fare del contrasto alla precarietà la chiave di volta di una ricomposizione del mondo del lavoro, contro il disegno di frammentazione e polverizzazione ulteriore ed esponenziale dei rapporti di lavoro, è difficile ma è anche un bisogno maturo nella società. L’esito del congresso non è con tutta evidenza positivo. La fase finale esplicita, come risposta alla volontà di marginalizzazione e distruzione della Cgil, non il cambio di passo in avanti che sarebbe necessario, ma una linea che può chiudere il cerchio nel segno dello scivolamento subalterno a Cisl e Uil. Gli esiti non sono tuttavia scritti. Per la stessa asprezza e instabilità della situazione innanzitutto, per il livello di “compromessi” che Governo e Confindustria, Cisl e Uil richiedono per rientrare in gioco e a cui difficilmente la Cgil può accedere, senza suicidarsi. Le contraddizioni e i problemi continuano a stare tutti davanti alla Cgil. Condividi