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di Daniele Bovi Una donna, disse una volta Giorgio Armani, sa vestirsi bene anche con due cose comprate all’Upim. L’acronimo che sta per Unico Prezzo Italiano Milano. In sostanza, una delle pagine dell’Italia popolare che, specialmente dal dopoguerra in poi, s’è fissata nell’immaginario di molti. “Prima passa all’Upim” recitava lo slogan dell’azienda ai tempi della concorrenza con la Standa. Dal 31 marzo prossimo a Perugia non si potrà più passare all’Upim perché l’azienda ha deciso di chiudere. La notizia è nota già da giorni, meno note sono invece le storie dei dieci lavoratori che tra otto giorni rischiano di non avere più un posto. Tutti e dieci, giorno più giorno meno, sono al lavoro al punto vendita di piazza del Bacio dal 1987. Ventritre anni consecutivi al servizio dell’azienda. Il marchio è dal 28 gennaio 2010 in mano a Coin, che ha rilevato il tutto dalla cordata di investitori formati da Pirelli Real Estate, Deutsche Bank, GIA (Gruppo Investitori Associati) e Borletti. Coin che firma un accorso sindacale in cui si impegna a mantenere gli attuali livelli occupazionali. Nel punto vendita di Perugia vengono depotenziati i settori trainanti: reparto casa, giocattoli e elettronica vengono compressi per far maggiore spazio a quello che in gergo si chiama “tessilizzazione”. Cioè all’abbigliamento, manco a dirlo di produzione cinese. In cinque anni, dicono i lavoratori di Perugia, i clienti sono diminuiti e il punto vendita ha perso un milione di fatturato: da 2,5 milioni si è passati a circa 1,5 milioni. Ad aggravare la situazione poi c’è anche la questione dell’affitto: i locali di piazza del Bacio infatti, in mano alla Bnl, costano circa 20mila euro al mese. Duecentoquarantamila euro all’anno. I primi di febbraio arrivano ai lavoratori le comunicazioni di messa in mobilità: la vecchia gestione, non la Coin quindi, ha disdetto l’affitto. L’Upim non ha più una sede. E’ l’anticamera della chiusura. Da qui iniziano le trattative tra le segreterie di Cgil e Uil da una parte (la Cisl non ha iscritti) e l’azienda dall’altra. Durante il primo incontro, in cui i sindacati avevano chiesto la ricollocazione dei lavoratori in ambito provinciale, l’azienda dice no alla cassa integrazione. Durante quello di sabato scorso invece arriva la brutta sorpresa: solo per tre dei dieci lavoratori (età media 40 anni, 80 per cento donne) viene fatta un’offerta di ricollocamento. Due i posti offerti per il punto vendita di Arezzo, uno in quello di Terni. Per gli altri sette nisba. Tre giorni fa poi, la richiesta che ha il sapore di una beffa. L’azienda, mentre tra otto giorni si sbaracca tutto, chiede ai lavoratori Upim di fare un po’ di straordinario. Condividi