Non c’è da essere né studiosi né sociologi, né economisti per capire che il lavoro è la priorità delle priorità, l’emergenza delle emergenze. Gli indicatori economici, le statistiche lo certificano, ma basta trovarsi in un bar, fuori dalla chiesa o allo stadio, al supermercato o a fare la passeggiata domenicale, insomma ovunque c’è un luogo di incontro e di relazione, per sapere che la paura dell’oggi e del domani è dovuta al lavoro perso o a quello che non c’è. Anche nella nostra regione, nel territorio dove vivo e lavoro, già storicamente più debole, disoccupazione e cassa integrazione sono aumentate in maniera esponenziale. L’emblema di questa situazione è la crisi della Merloni di Colle di Nocera, con oltre 1.000 lavoratori diretti e almeno altrettanti come indotto, e parlo solo della parte riguardante l’Umbria. Vivere la condizione di lavoratore senza sbocco e senza futuro è drammatico. Questi sono i lavoratori che almeno un po’ “notizia” la fanno ma proviamo a pensare a quante migliaia sono i precari che non hanno alcun diritto né ammortizzatori; quanti sono i dipendenti di piccole e piccolissime aziende licenziati senza sbocco e senza nessuna tutela. Stessa situazione viene vissuta da tanti piccoli e piccolissimi lavoratori in proprio, artigiani o piccoli commercianti che ci hanno provato ma non ce l’hanno fatta: la crisi, le banche, gli affitti li hanno fagocitati e in molti si sono riempiti di debiti. Per migliaia di persone è proprio cambiata la vita. Passare dalla dignità della normalità verso lo scivolamento nella povertà è un qualche cosa che segna pesantemente, blocca aspettative, impedisce di agire come si vorrebbe, non fa più sognare un futuro migliore. In questo quadro, dove dal Governo centrale non arrivano risposte adeguate (almeno che i soldi del condono fiscale, degli evasori con l’innominabile “scudo fiscale” vadano a coloro che non hanno lavoro !!!), dove anziché incentivare consumi si procede in tagli e ristrettezze, arriva la rapina dei diritti dell’ultimo baluardo dei diritti dei lavoratori: l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Con il disegno di legge approvato dal Senato, senza troppo clamore e, malauguratamente, senza efficaci reazioni parlamentari, si sancisce una prepotenza assoluta dello Stato che, di fatto, liquida la “giusta causa” nei licenziamenti individuali, assestando un colpo mortale a quello che rappresenta l’estrema difesa contro i soprusi padronali nei conflitti di lavoro. Per comprendere la portata delle conseguenze, occorre rammentare che la famigerata legge 30, chiamata anche legge Biagi, aveva previsto la possibilità che, nell’attivare un rapporto di lavoro, le due parti potessero ‘accordarsi’ fra loro su condizioni in tutto o in parte derogatorie rispetto ai contratti collettivi e alla legislazione vigente. E’ evidente che la stipula di simili accordi passa per un ricatto bello e buono, poiché solo una persona che ha un estremo bisogno di lavorare può accettare clausole peggiorative delle condizioni normative o retributive della sua prestazione, come ovviamente spesso accade. La norma serve dunque a conferire forza legale e legittimità formale alla legge del più forte, capovolgendo un punto fermo del giuslavorismo italiano a tutela del soggetto più debole. Per questo la legge aveva sin qui previsto che vi fossero “diritti indisponibili”, vale a dire irrinunciabili, persino da parte di coloro che ne sono i beneficiari. Per rendere inoperante questo sano e democratico principio, occorreva impedire al giudice di intervenire di fronte ad una contestazione promossa dal lavoratore quando questi, perché più libero di disporre di sé, o perché licentiatosi, avesse inteso ottenere, sia pure tardivamente, giustizia. Ecco allora che interviene il nuovo disegno di legge: «Nella qualificazione del contratto di lavoro e nell’interpretazione delle relative clausole, il giudice non può discostarsi dalle valutazioni delle parti, espresse in sede di certificazione dei contratti di lavoro (…) salvo il caso di erronea qualificazione del contratto, di vizi del consenso o di difformità tra il programma negoziale certificato e la sua successiva attuazione». Il significato è inequivocabile: il giudice non applicherà né la legge né i contratti collettivi, ma si atterrà a ciò che i soggetti in questione hanno privatamente pattuito. Siamo alla riesumazione del contratto individuale e alla sostanziale cancellazione del diritto del lavoro. Proprio come già avviene nella sterminata prateria del precariato, dei lavori saltuari, intermittenti, somministrati, a progetto, a chiamata, che interessano una, o forse ormai due generazioni di persone i cui diritti fondamentali, la cui libertà e la cui dignità sono stati mandati al macero, anche per la stragrande maggioranza dei lavoratori, nel nome della libertà e della competitività d’impresa, si commetteranno i soprusi più abominevoli. Il prossimo Governo Regionale, insieme ai tanti problemi aperti che ha la nostra PICCOLA GRANDE REGIONE, dovrà confrontarsi e contribuire a dare risposte adeguate a questo problema. Non faccio una questione nominalistica ma certamente il “reddito sociale” (la proposta del Prc e della Federazione di Sinistra), o che si chiami diversamente, contributo sicuro e duraturo a tutti coloro che non hanno lavoro (o perché hanno perso il lavoro o perché disoccupati), deve essere impegno certo. Dire impegno significa, oltre a fare tutte le pressioni necessarie e dovute sul Governo perché apra i rubinetti, metterci cifre importanti del proprio bilancio. Se questa è una priorità, e certamente lo è, non può che essere questa la strada. Poi parlando di lavoro dovremo ri-ragionare su quale modello di sviluppo vogliamo in Umbria e per l’Umbria. Allora, la filiera Turismo-ambiente-cultura deve passare da sigla ad effetto reale, con politiche praticate che si leghino con la tutela, salvaguardia e sviluppo sostenibile del territorio. Se siamo in sintonia con il comune sentire dell’italiano medio, facciamo pulsare ancora ‘il cuore verde d’Italia’ e facciamolo valere, questo cuore. La cultura e (non sorprenda che lo dica un comunista non pentito) la spiritualità religiosa, che in Italia non ha pari, devono avere la giusta riconoscibilità e devono trainare flussi turistici nettamente superiori a quelli che abbiamo avuto fino ad oggi. L’Umbria, che è già troppo piccola in sé, deve “vendersi” come Regione. Quanti inutili finanziamenti a pioggia sui vari territori che non producono effetto sul piano della qualità della promozione… Per la cultura vanno certamente bene i grandi eventi e qui sempre più necessarie saranno le sponsorizzazioni private, ma l’Umbria è ricca di eventi, iniziative, occasioni medie-piccole dove si manifesta tutto il meglio delle nostre qualità, a partire dalla cordialità alla capacità di ascolto e di inclusione della nostra gente; tanti sono i settori dell’artigianato e delle produzioni di qualità che possono vantare una enogastronomia seconda a pochi. E’ una piccola fotografia ma credo che valga la pena ragionare, e proporre di agire in questa direzione, anche perché mi sembrano le forme più certe e spendibili per creare occupazione di qualità e dare quindi un po’ di lavoro.
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