di Gianluca Graciolini
Comitato Regionale PRC Umbria
Le proposte che faranno da base all'Accordo di programma saranno dunque due, nelle intenzioni di questo Governo. Una per l'Umbria, l'acquisto da parte della Società Quadrilatero dello stabilimento di Colle senza alcuna garanzia di prosecuzione dell'attività produttiva e di salvaguardia dei posti di lavoro, ed una per le Marche, con la manifestazione di interesse dei cinesi per l'acquisto del troncone centrale di Fabriano che consentirebbe, almeno nelle ipotesi, il mantenimento di uno straccio di produzione.
E due sono, infatti, state le dichiarazioni dei Presidenti di Regione. Quella di Maria Rita Lorenzetti che si dice per niente soddisfatta e quella di Spacca che dimostra un ottimismo cauto. L'ottimismo è evidentemente per la manifestazione di interesse, la cautela per i ritardi e per la mancata certezza di risorse e strumenti legislativi su cui possa fondarsi un Accordo di programma decente.
Se fossimo cittadini delle Marche consiglieremmo invece preoccupazione al loro Governatore. Spacca sa bene che l'esperienza di investitori cinesi è stata già vissuta ed ampliamente sperimentata nella sua Regione con risultati relativi all'occupazione, alle tutele del lavoro, alla stessa qualità delle relazioni industriali e di rapporto con il territorio, i suoi cittadini e le sue istituzioni, per nulla soddisfacenti per non dire catastrofici.
Basta andare, per esempio, dalle parti di Civitanova Marche, fino a qualche tempo fa considerata il Nord Est di questa Regione, per accorgersi che aria tira. La nuova Zona Industriale, progettata fin dai tempi della massima espansione economica del settore calzaturiero e della lavorazione delle pelli, è alla esclusiva mercè di investitori cinesi che portano con sè un modello di capitalismo selvaggio e completamente sprovvisto di elementari rispetti per la qualità ambientale della produzione e per la qualità sociale del lavoro.
Questo eventuale destino per il troncone marchigiano della Antonio Merloni ci parla anche della rinuncia oramai conclamata per il nostro Paese ad una politica industriale che salvaguardi la produzione manifatturiera nel campo degli elettrodomestici, nonostante i ricchi regali fatti via via dallo Stato e dalle Istituzioni locali ad alcune aziende del settore compresa quella di cui stiamo parlando e nonostante i tentativi fallimentari di delocalizzazione per competere solo sul costo del lavoro.
Quanto alla proposta sul versante umbro ne abbiamo già ampliamente parlato: essa si iscrive in una logica speculativa e affaristica diffusa e condivisa da ampli settori della PDL e dello stesso centro sinistra umbro. La soluzione che si prospetta salverà alla fine solo qualche posto di lavoro per i pochi "fortunati" che sapranno destreggiarsi meglio nel porsi come clientes di alcuni settori della politica.
Il limite gigantesco che riemerge oggi in questa vertenza è lo stesso di sempre per quanto riguarda questa azienda: sia di quando, nei momenti di espansione, bisognava contrattare tempi, ritmi, modalità di lavoro e nello stabilimento umbro, con la complicità responsabile del sindacato CISL in primo luogo, si varava un'organizzazione del lavoro tra il poliziesco e il paternalista, sia quando, a crisi già aperta, la famiglia Merloni provò a salvarne, se non altro per proprio per un orgoglio patriarcale, in primis il troncone fabrianese.
Lo stabilimento umbro, cioè, è stato da sempre considerato l'appendice decentrata, oserei dire, sacrificale della centrale marchigiana. A tutte queste considerazioni va poi aggiunta ancora una volta quella relativa all'assordante silenzio e all'assenza assoluta in questa vertenza di una delle più indubbie e fondamentali controparti: la Confindustria.
Ed una di carattere squisitamente politico: da oggi, di fronte alla proposta del governo che spezza in due le soluzioni sul gruppo Merloni, sappiamo che anche la vertenza con ogni probabilità farà la stessa fine. E' questo il nuovo rischio che mina la possibilità di procedere unitariamente nella formulazione delle proposte politiche ed istituzionali e con modalità altrettanto unitarie di mobilitazione operaia.
Le dichiarazioni separate e non coincidenti dei due Presidenti di Regione ci parlano purtroppo anche di questo. Occorrerebbe, pertanto, uno sforzo e uno slancio di unitaria responsabilità da parte delle classi dirigenti di Umbria e Marche e una loro consapevolezza che come Regioni piccole dell'Italia centrale, nonostante i convegni e i patti che si sottoscrivono ogni tanto, in questa mobilitazione e sul terreno concreto del contrasto alla crisi di un bel pezzo del loro sistema industriale, da sole, non vanno da nessuna parte e rischiano per calcoli opportunistici di basso profilo e senza alcuna certezza di solide e durature soluzioni di gestire a breve il massacro sociale e la desertificazione produttiva di intere aree territoriali.
Uno slancio unitario, oggi, contro la crisi e per riprogettare lo sviluppo, domani per presentarsi pronti alla sfida del federalismo. E' lo stesso appello che, a caldo, abbiamo voluto rivolgere ai sindacati che si lamentavano per la bassa intensità percepita di questa vertenza a livello nazionale. Questa porta innanzitutto una loro responsabilità che è inscritta nella storia delle relazioni industriali di questa azienda che, volendo, potremmo estendere a tutto il nostro territorio.
Solo un atto forte potrebbe restituire alla lotta delle lavoratrici e dei lavoratori un orizzonte di maggiore incisività volto a mettere sul tavolo del governo più solide certezze e più vere e concrete soluzioni per lo sviluppo e per il lavoro nel nostro territorio. Solo lo sciopero generale di Umbria e Marche, per la stessa importanza di questa crisi per entrambi le regioni, saprebbe probabilmente costringere il Governo a dare di più e in tempi più rapidi.
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