E’ stata la chiave di volta che ha permesso di zittire i lavoratori, togliendo loro ogni speranza. E’ stata lo strumento per portare il salario a un livello che non si vedeva più dagli ‘50.
E’ lo specchio fedele di una società che torna indietro, al punto che - per la prima volta nella Storia, in assenza di guerre all’interno dei paesi avanzati - le nuove generazioni sanno già con certezza che li attende un futuro peggiore di quello dei padri.
E non di padri benestanti: anche «semplici» operai, impiegati, insegnanti, artigiani. La precarietà del lavoro è stata imposta a forza, prima con il «pacchetto Treu», durante il primo governo Prodi. Poi è stata fatta diventare condizione universale, unica modalità d’accesso al lavoro, con la «legge 30» del terzo governo Berlusconi.
Un lavoro precario uccide la possibilità di progettare la vita, mantenere dignitosamente dei figli, far fronte agli imprevisti più banali e frequenti. Specie se, allo stesso tempo, si vanno riducendo i servizi sociali essenziali e privatizzando i residui beni comuni.
La precarietà cancella il futuro e consegna ognuno di noi a un eterno presente fatto di silenzi rancorosi sotto padrone, concorrenza col vicino di posto, paura di non vedersi rinnovare un contratto e di doversi rimettere in fila per un altro posto, in un altro luogo, con ancor meno prospettive.
Stiamo lanciando una campagna di raccolta firme per indire un referendum abrogativo di tutte le forme di precarietà contrattuale. Ma è uno strumento, non un fine. Dobbiamo farne occasione di costruzione e collegamento di un rinnovato movimento di lotta.
Giovanile e non solo. Perché la precarietà uccide ormai anche le altre generazioni. Come donne e uomini quarantenni che la stabilità non l’hanno mai conosciuta. O i cinquantenni gettati in strada dalla crisi che non passa.
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