di Isabella Rossi
Un padre, una madre, un figlio. Vite che si incrociano in un ambiente minimo e pieno di squilibri. In scena tre personaggi tratteggiati come maschere da un processo di astrazione frutto di ironico distacco e attenta analisi. Tre uomini vestono identità accennate e distanti per età anagrafica e sesso. Eppure l’affilato strumento di rappresentazione di un paradigma affettivo si rivela più che mai efficace in “La Festa”, di Spiro Scimone, andato in scena sabato scorso al teatro Cucinelli di Solomeo.
Affetti ossidati dalla routine, inchiodati dall’inerzia e dall’assoluta assenza di orizzonti. Una carenza che finisce irrimediabilmente per proiettare sul piano gli assi cartesiani di tutto il sistema, privandolo di ogni elevazione. Da un lato il culto stanco, e a volte grottesco della memoria, dall’altro quello demenziale dei legami, obbedienti ad una oscura legge della fisica che conferisce qui al peso materno, sempre immobile, la capacità di convogliare in un punto ciò che il buon senso vorrebbe lontano.
Esercizi di potere attivati da puntuali meccanismi retorici solo apparentemente banali. Sempre sul filo, in bilico tra farsa e tragedia, si susseguono le istantanee di famiglia, ironicamente intervallate da uno stacchetto musicale. Da celebrare c’è il trentesimo anniversario di nozze dei coniugi, ma il vero protagonista è il figlio che mette il denaro per i festeggiamenti.
Non è l’azione a creare la tensione narrativa, bensì l’attesa creata dall’esasperazione sistematica di quella comunicazione rituale che trasferisce il senso al di fuori del contesto linguistico. Le parole sono scudi, gesti, nenie o talismani capaci di evocare un’agognata normalità. Istaurano un circolo senza mittente né destinatario, con una partenza e un punto di arrivo sempre uguali a sé stessi, interrotti fugacemente solo dall’alienazione stampata in faccia al figlio.
La festa, come la famiglia, è un copione scritto da qualcun altro. Entrambi risultano tanto più estranianti quanto più irrimediabilmente necessari. Anche il debole tentativo di uscire dal cupo microcosmo, rappresentato dall’acquisto del cappellino rosso, sfocia nel ridicolo. Ma era un vero tentativo? Rapidi flash, incursioni indolori in uno universo capace di soddisfare appetiti voyeuristici grazie ad una sapiente regia. Una striscia tragicomica dal sapore vagamente dada quella che al drammaturgo messinese è valsa il riconoscimento dell’Académie française.
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