di Giuliano Granocchia Assessore al Lavoro e alla Formazione della Provincia di Perugia I dati sulla disoccupazione diffusi dall’Istat proprio oggi ci consegnano un quadro a tinte fosche per l’economia e il lavoro del nostro Paese. Gli oltre 400.000 posti di lavoro cancellati rispetto all’anno precedente, il tasso di disoccupazione all’8,3% oramai in crescita esponenziale che non tiene neanche conto del mancato rinnovo dei contratti a tempo determinato nei settori pubblici e privati, l’aumento della disoccupazione giovanile e femminile, le espulsioni in via pressoché definitiva dal mercato del lavoro dei soggetti più deboli e di molti lavoratori nelle aree più depresse e critiche del Paese, confermano e consolidano le nostre tante e già forti preoccupazioni. A questi dati si aggiungono quelli dell’INPS di qualche giorno fa che parlano di un aumento del ricorso alla cassa integrazione pari a tre volte quello dell’anno scorso, in ragione delle tante e diffuse crisi aziendali in corso. La risposta che il Governo ha imposto alle Regioni con l’accordo per il finanziamento della cassa integrazione attraverso il ricorso alle risorse del Fondo Sociale Europeo altrimenti destinate alle misure per la formazione e per le politiche attive del lavoro attuate dalle province è a dir poco pigra, senz’altro conservatrice e priva di qualsivoglia concreta volontà di procedere alla riforma del sistema degli ammortizzatori sociali. Questa risposta mortifica le politiche attive del lavoro, quelle cioè destinate ai soggetti più deboli del mercato del lavoro che d’ora in poi si troveranno in una condizione di sostanziale impossibilità di inserirsi professionalmente e complica ancora di più ogni tentativo delle Province italiane più virtuose, come la nostra, di fare della formazione una scommessa sul futuro per le imprese che puntano su questa e per migliaia di lavoratrici e di lavoratori. Il contesto di crisi delineato dal rapporto dell’Istat lo viviamo oramai da tempo anche nella nostra regione e, specificatamente, nella nostra provincia dove si sono aperte tante crisi aziendali in territori tradizionalmente vocati al lavoro d’impresa compresa quella di qualità, l’Alto Tevere su tutte. E dove si è aperta la principale di queste crisi: quella dell’Antonio Merloni di Gaifana che rischia di seppellire, direttamente e nell’indotto, migliaia di posti di lavoro e con essi rischia di gettare nel baratro più cupo l’intero Appennino umbro-marchigiano già provato dalla crisi economica che investe molti atri settori produttivi. La crisi globale che stiamo ancora e del tutto attraversando non ha finito di produrre tutti i suoi effetti devastanti, soprattutto nei nostri territori, che già le cause di essa si stanno riperpetuando: gli ultimi dati sulle speculazioni finanziarie diffusi dalla Borsa di Milano ci parlano di questo. E ci parla di questo anche la priorità posta dal Governo per l’agenda politica e istituzionale del 2010: l’annunciata riforma del sistema fiscale che si accoppia bene con la misura dello scudo fiscale premierà i furbi e continuerà, in forme probabilmente inedite e gigantesche, a ridistribuire la ricchezza verso i ceti medio-alti. Tutto ciò, nonostante la retorica e le sparate sul posto fisso di Tremonti, con governo e industriali pronti a inasprire le misure sul lavoro dipendente, a ridimensionare le residue tutele del lavoro, a praticare politiche per l’uno, modelli organizzativi d’impresa per gli altri, incentrate e incentrati sull’ulteriore riduzione del costo del lavoro e sulla flessibilità. La flessibilità è stata sbandierata ai tempi dell’espansione economica e della fase più acuta del liberismo globale come uno dei motori principali dello sviluppo e della crescita economica. Alla prova di ogni fatto che è oramai sotto gli occhi di tutti, noi sappiamo che essa ha generato solo diffusa e spesso selvaggia precarietà, è stata una tra le principali cause della crisi ed ora diventa uno dei principali freni ad una possibilità di ripresa. Il consumo e la domanda interni ne risentono pesantemente: l’equazione per anni e demagogicamente sbandierata “più precarietà = più lavoro” si è semplicemente rivoltata nel suo contrario dimostrando miseramente il suo fallimento e, per le stessi leggi dell’economia, è risultata completamente priva di un qualsiasi fondamento a giustificazione della stessa crescita quantitativa dell’economia. Non vogliamo parlare della sua qualità, ci porterebbe troppo lontano: vogliamo solo sollecitare con forza un cambiamento che restituisca al lavoro la sua centralità nelle politiche economiche e sociali di questo Paese. Condividi