Cesare attraversa il Rubicone , è l’11 gennaio del 49 a. C, inizia la guerra civile e la fine del poco che resta della repubblica La notte dell’11 gennaio del 49 a. C. Giulio Cesare attraversa il Rubicone, un fiumiciattolo, un torrente dalle acque melmose che scende dagli Appennini e segna la frontiera tra la Gallia Cisalpina e l’Italia. La legge romana è esplicita: un proconsole che alla testa di uomini in armi passi dalla sponda settentrionale della Cisalpina alla sponda italica del Rubicone diventa per ciò stesso un criminale proscritto dalla Repubblica. Cesare terminata la campagna di Gallia, s’appresta a ritornare in patria. A Roma lo aspettavano il desiderio mai sopito di vendetta dei seguaci del dittatore Silla, l’antagonismo e l’invidia di Pompeo, l’imbarazzo dei Senatori tradizionalisti (ferocemente aggrappati ai privilegi dell’oligarchia) nel dover confrontarsi con un politico con tanta libertà da rompere le regole e le consuetudini del governo Senatorio, cioè l’oligarchia nobiliare. L’obiettivo della cricca sillana, dichiarato e sbandierato, era quello di processare Cesare con l’accusa terribile di aver gestito la campagna di Gallia scavalcando il Senato. Il problema di Cesare era come evitare un salto di continuità tra le sue magistrature. Dal consolato del 59 a. C. era passato al proconsolato quinquennale del 58 a. C., rinnovato nel 55 a. C. per un altro lustro. Grazie prima all’imperium domi e poi a quello militiae, che gli avevano fatto da scudo, a Catone e gli altri affiliati al partito sillano non era riuscito di incriminarlo. A Roma qualsiasi magistrato non poteva essere accusato finché era in carica. Solo quando fosse diventato un privato cittadino poteva essere giudicato. In sostanza, se Cesare fosse stato portato sul banco degli imputati, non se la sarebbe cavata con meno di un esilio da Roma, cioè con la sua fine politica. L’interessato lo sapeva cosi bene che aveva convinto tutti e dieci i tribuni a far votare un plebiscito nel quale gli si attribuiva un privilegio ad personam: quello di poter avanzare la candidatura al consolato in absentia, cioè non presentandola di persona a Roma, come stabilito dalla legge. La situazione politica a Roma Mentre Cesare portava la conquista della Gallia, a Roma la situazione politica e sociale era tutt’altro che tranquilla. Vi regnava piuttosto una forma di endemica anarchia: intrighi, corruzione, lusso, dissipazione caratterizzavano la nobiltà romana. Il popolo tumultuava nei comizi e si acquietava momentaneamente corrotto dalle distribuzioni gratuite di frumento e dagli spettacoli circensi. Clodio e Milone si affrontavano con le loro bande armate, non tanto mossi da ideali politici, l’uno esponente dei populares (democratici) e l’altro degli optimates (aristocratici), ma da faziosità e interessi privati, mentre andava sempre più diffondendosi fra la gente l’idea che soltanto un potere forte e unico avrebbe potuto restaurare l’ordine e la pace. Nel 52 a. C. il tribuno della plebe Clodio rimase ucciso in uno scontro alla periferia di Roma con le squadracce del suo avversario Milone. Seguirono tumulti in occasione dei suoi funerali. La plebe partigiana dell’ucciso, infuriata, gli eresse un rogo funebre, devastò la curia, sede del Senato, e chiunque venne trovato con indosso abiti raffinati o anelli d’oro fu giustiziato all’istante. Il Senato decise allora di eleggere per quell’anno un solo console, invece dei due previsti dall’ordinamento costituzionale. Quando il Senato e Catone avevano consentito che si eleggesse Pompeo console unico, Cesare e il suo partito non mossero nessuna critica. Il consolato unico era una vera mostruosità costituzionale, che sommava poteri che di fatto definivano una vera e propria dittatura. Per tutta risposta Pompeo aveva ribadito in una nuova legge che non era permesso presentare candidature per mezzo di terzi, annullando in questo modo il privilegio attribuito a Cesare dai tribuni. Cosi Cesare sarebbe stato costretto a cedere il comando al successore designato dal Senato, proprio nel momento in cui sarebbe scaduto il suo quinquennio magistraturale, cioè alla fine del 50 d. C. Poiché il decennio di intervallo tra un consolato e l’altro, richiesto dalla legge, si completava alla fine del 49 a. C., il proconsole poteva essere rieletto console solo per l’anno 48 a. C. ne conseguiva che almeno per il 49, Cesare sarebbe tornato un cittadino privato e sarebbe perciò stato esposto alla vendetta che gli oligarchi che stavano alimentando da anni contro di lui. Per il 51 a. C. vennero eletti consoli due fieri anticesariani, Claudio Marcello e Sulpico Rufo. Il primo a più riprese tentò di far discutere in Senato la nomina di un successore a Cesare nel governo della Gallia, ma per la tenace opposizione del tribuno Gaio Scribonio Curione la proposta fu rinviata all’anno seguente. Nel dicembre del 50 a. C. il tribuno della plebe cesariano Curione propose in Senato, ottenendo una maggioranza schiacciante di voti favorevoli, di far consegnare il comando provinciale dell’ esercito a Cesare ma anche contemporaneamente a Pompeo, (il cui imperio proconsolare sarebbe scaduto solo nel 48), per bilanciare l’equilibrio delle forze in gioco. L’opposizione di Catone e dei pompeiani fu durissima, tanto da riuscire a bloccare la decisione anche se al prezzo di un indebolimento assai serio del prestigio e dell’autorevolezza del Senato. Se la incredibile conquista della Gallia, voluta e perseguita da Cesare per otto lunghi anni con determinazione, coraggio, fantasia e una incrollabile fiducia in se stesso e nelle sue legioni, si era risolta nella più straordinaria conquista di Roma, l’obiettivo di riacquistare rispettabilità politica e consenso per il Senato grazie ad essa era fallita. Lo scontro in Senato Il Senato era diviso tra un gruppo di senatori guidato da Catone assolutamente determinati a salvaguardare i privilegi di una ristretta casta e un altro gruppo, i più numerosi, neutrali ed incerti terrorizzati soprattutto da una nuova guerra civile e da una minoranza di cesariani. I catoniani sostenevano che Cesare doveva essere liquidato in quanto politico e generale al di fuori della legalità e si erano gettati nelle braccia di Pompeo, che quanto a potere e ambizione, in ultima analisi non costituiva certo per la libertà repubblicana un pericolo minore. Cesare aveva anche cercato, con grande abilità ed insistenza un compromesso e il consenso del Senato anche in nome dei servigi resi allo stato, in modo da poter ricoprire una posizione nella vita politica coperto da una inequivocabile legittimità istituzionale. Giulio Cesare sostenne ufficialmente la tesi che lo stato e il popolo erano oppressi da una fazione ristretta di senatori che avrebbe finalizzato l’esercizio del potere agli interessi personali della propria dignitas e dei diritti dei tribuni, motivazioni classiche con i valori tradizionali dell’aristocrazia romana. Quanto più cresceva la popolarità di Cesare, tanto più profondo diveniva l’abisso tra lui e Pompeo e più solido il terreno per un avvicinamento tra Pompeo e i gruppi dei senatori capeggiari da Catone. Agli occhi del Senato, sia Cesare che Pompeo erano ugualmente dittatori potenziali e, di conseguenza, nemici che cercavano di distruggere la repubblica oligarchica; solo per la legge del minor male possibile era preferibile Pompeo. Cesare esce più forte e quindi più pericoloso. Pompeo invece, data l’indecisione che lo caratterizzava, avrebbe potuto diventare per un periodo indefinito primo cittadino, princeps, come lo chiamava Cicerone, ma non un dittatore con aperte tendenze monarchiche come invece si sospettava di Cesare. La rivalità tra Cesare e Pompeo Cesare e Pompeo, schierati su campi avversi e soprattutto a difesa di ben precisi interessi economici opposti – quelli dei ceti medi imprenditoriali finanziari e mercantili e del proletariato Cesare; quelli dell’aristocrazia latifondista e senatoria, Pompeo - erano stati in realtà sempre gelosi e diffidenti l’uno dell’altro. Il paradosso è che nessuno dei leader che fecero collassare la repubblica si schierò contro il Senato; anzi, tutti pretendevano di agire in nome dell’apparato ideologico della repubblica. La contraddizione insanabile era la salvaguardia delle prerogative del Senato e la presenza di singole personalità cosi preminenti sulla dialettica dell’organo collegiale stesso. Cesare aveva trattato fino all’ultimo nella ricerca di un compromesso, tanto che per salvare la sua dignitas avanzò la proposta che avrebbe accettato anche il governatorato dell’Illirico con una legione soltanto. Ma questa idea fu respinta.. Cesare inviò al Senato una lettera molto diplomatica nella quale si diceva disposto ad ulteriori concessioni. Caio Scribonio Curione, rappresentante di Cesare, lesse la lettera alla seduta del primo gennaio del 49 a. C.: il Senato era inizialmente ben disposto, ma Pompeo e i suoi seguaci costrinsero con aperte minacce i senatori ad obbligare Cesare a trasmettere al più presto i suoi poteri al successore nominato Domizio Edonardo, e sciogliere il suo esercito sotto la minaccia, in caso contrario, di essere dichiarato nemico della patria. Il veto posto nel 49 a. C dai tribuni della plebe. Marco Antonio e Quinto Cassio, cesariani, rese la situazione insostenibile e determinò da parte del Senato, il 7 gennaio, l’adozione del senatusconsultum ultimum cioè la dichiarazione che la repubblica si trovava in pericolo. Pompeo fu incaricato di reclutare truppe in Italia; Antonio e Cassio, insultati dai soldati di Pompeo, travestiti da schiavi, fuggirono da Roma e cercarono rifugio presso Cesare a Ravenna, seguiti da Curione e da Celio, il giovane corrispondente di Cicerone. Cesare deve aver appreso la decisione del Senato il 10 gennaio a Ravenna. La sottomissione alla richiesta del Senato equivaleva alla condanna a morte politica, la resistenza significava ribellione aperta. Non c’era via d’uscita. A questo punto il proconsole della Gallia, che aveva già messo in conto questa funesta eventualità, non ebbe più esitazioni. Pare che avesse già dato ordine di far rientrare almeno due legioni dalla Gallia, e immediatamente si preoccupò di far conoscere alla opinione pubblica romana e dell’Italia la sua indignazione per quanto accaduto. L’argomento forte era la difesa della sua dignitas nella accezione della salvaguardia dell’onore del patriota, dello straordinario generale, dell’artefice della fondazione dell’impero di Roma. Cesare aveva alle spalle nove legioni di veterani, pronte a intervenire a un suo cenno, nonché una bella fetta di consenso popolare che non avrebbe esitato a schierarsi al suo fianco. Tuttavia se non fosse stato Cesare ma uno qualunque dei politicanti romani che passavano la vita a brigare le promozioni da una magistratura all’altra, probabilmente non avrebbe avuto il coraggio di rompere con il Senato e di scatenare la guerra civile; tra l’altro per combattere contro un generale che veniva paragonato ad Alessandro Magno. Cesare in realtà chiedeva solo di rimanere in patria, di non essere escluso dalla competizione politica, insomma di conservare il ruolo non di padrone ma del personaggio che aveva recitato fino al quel momento sulla scena romana. I suoi nemici sillani non hanno voluto concederglielo e non hanno avuto nemmeno l’immaginazione di temere che il loro rivale potesse dare a tanta intransigenza una risposta cruda e definitiva come la guerra civile. Se attribuiamo alla parola dignitas un senso burocratico, Cesare aveva eccellenti motivi per non accettare di essere umiliato e per sostenere che la guerra civile non era stata una scelta personale ma soprattutto colpa di chi ve l’aveva costretto. La fatidica giornata dell’11 gennaio Ravenna e tutta la zona era piena di spie pompeiane. Cesare programmò una giornata del tutto normale. Prima discusse con gli architetti la pianta e la struttura di una scuola di gladiatori, poi si fece vedere alle terme e infine invitò a cena tutto il suo seguito. Dopo l’avvio della cena, raccomandando agli ospiti di non andarsene perché sarebbe tornato subito, uscì dal triclinio e saltò sul carretto che alcuni amici preso in affitto da un mugnaio del posto. Con questi congiurati di fiducia imboccò una via secondaria affinché nessuno potesse sospettare quale fosse la vera destinazione. Alle quattro del mattino, dopo aver battuto tutti i sentieri, dovettero ammettere di aver smarrito strada diretta al ponte sul Rubicone. Col primo chiarore ebbero la fortuna di incrociare un viandante mattiniero che li salvò dal ridicolo, e si offrì come guida e conducendoli al ponte. Le cinque coorti della XIII con le quali aveva previsto di iniziare la sua avventura erano già pronte a guadare il fiumiciattolo. Arrivato dunque Cesare al confine, un oscuro sentimento di timore lo costrinse a fermarsi. Come tramanda uno dei suoi accompagnatori, il futuro storico Asinio Pollione, egli disse: “La rinunzia a questo passaggio porterà sfortuna a me. Il passaggio, però, a tutti gli uomini”. Svetonio colorisce con vivezza la scena al Rubicone e fa dire a Cesare rivolto ai suoi soldati: “Possiamo ancora tornare indietro. Se però passeremo questo piccolo ponte tutto sarà da rimettere alle armi”. Quindi mentre Cesare ancora esitava, sarebbe successo quanto segue: “Un uomo di grande statura e bello apparve improvvisamente nelle vicinanze, sedeva e suonava un flauto. Accorsi a lui oltre ad alcuni pastori molti soldati, fra cui trombettieri, dai loro posti per ascoltarlo, lo sconosciuto strappò di mano a uno dei soldati la tromba, balzò giù nel fiume, prese a suonare con tutte le sue forze il segnale d’attacco e si diresse all’altra riva. Allora Cesare esclamò: “Si vada là dove ci chiamano i seguaci degli dei e iniquità dei nemici”. È comprensibile che i contemporanei trasferissero in un mondo mitico e immaginario gli eventi collegati al fatale passaggio del Rubicone. La realtà sarà stata più semplice, ma non meno impressionante in considerazione della gigantesca sfida. Col verso proverbiale del poeta Menandro “sia gettato il dado”, citato in greco, Cesare cominciò il suo gioco d’azzardo per l’altissima posta, la sua impresa più temeraria nella scalata al potere. Condividi