Non ce ne abbiano gli altri critici televisivi (per fortuna viventi), ma Beniamino Placido è stato un faro per la categoria, inarrivabile. Anche rispetto a colleghi in alcuni casi troppo astiosi e presuntuosi, nessuno ha saputo ancora eguagliare la sua inquieta ironia, la sua profonda curiosità per ogni fenomeno (tele)visivo, il fatto di essere intellettuale prestato alla (tele)visione. Per definire questo pezzo della sua vita professionale, che è stata la più nota "solo" per lo spazio che Repubblica dava alle sue analisi argute e sempre oneste e attente, lui soleva dire: «Credo dipenda dalle generazioni, e per la mia generazione significa affacciarsi alla finestra e vedere che cosa accade, chi passa, che cosa si dice, né più né meno». Understatement che non scendeva mai nel vezzo della falsa modestia, cultura che non indugiava mai nell'erudizione, Placido regalava fotografie, provocazioni intellettuali e di costume, mostrava di sapere molto (alcune volte tutto) senza mai rinfacciarlo a nessuno. Umile e sincero a chi scrive, in occasione di uno dei suoi non frequentissimi incontri pubblici, disse «bravo, ma resisti alla seduzione delle parole e dei giochi che con esse puoi fare. Finisce che a volte prevalgano sul pensiero e sull'analisi». Un rimprovero al giovane collega (convinto ovviamente che mai un suo pezzo si fosse poggiato sulla scrivania del maestro), e anche una fotografia delle sue regole di osservatore e scrittore. Leggeva molto, non gli sfuggiva nulla, anche se il suo animo aveva confini ben più larghi degli articoli, pur sapidi, di un quotidiano. Lucano di Rionero in Vulture, negli ultimi due mesi si era trasferito dall'affezionata figlia Barbara a Cambridge per averla vicina fino all'ultimo, alla fine di un'avventura umana che l'aveva visto iniziare come consigliere parlamentare per poi arrivare in America e costruire quel bagaglio culturale e di studio che al suo ritorno gli avrebbe fatto conquistare la cattedra all'Università La Sapienza di Roma di letteratura anglo-americana. E da quel background lui trasse, in articoli, saggi e libri, quello stile mai pomposo, godibile, rigoroso e spesso ironico e divertente. Una penna dalla punta anglosassone e dall'anima meridionale e meridionalista. Lo si vedeva nei commenti ai fenomeni "più bassi". Un esempio per tutti fu l'intervento televisivo in cui sornione e divertito tesseva le lodi, con la solita signorilità, di uno striscione apparso in uno stadio: "Giulietta si 'na zoccola", esposto all'entrata del settore ospiti del San Paolo di Napoli prima e durante la partita Napoli-Verona (ne parlò, con meno eleganza, anche Indro Montanelli, suo compagno in tv in "Eppur si muove"). Nessun pregiudizio e nessun moralismo, seppe spiegare come quelle sfrontate quattro parole fossero la risposta geniale e sferzante alla partita d'andata dello stesso campionato. Lì i tifosi scaligeri si erano prodotti in decine di striscioni razzisti (i più gentili? "Benvenuti in Italia", "Tornatevene in Africa", "Colerosi") e, come sa lo stesso Balotelli che ieri ha definito i tifosi di Verona "schifosi" per gli insulti subiti, per tutta la partita ci fu una profusione di cori ignobili. I napoletani risposero solo con quello striscione. Con una colta volgarità, andando a colpire l'anima e suscitando il sorriso. Placido seppe andare oltre e difendere quel gesto, quelle parole, amandole per l'ironica e orgogliosa intelligenza che esprimevano. Amava mettersi in gioco, fin dal titolo della sua rubrica (uscita almeno 1500 volte), "A parer mio". Ha scritto di tv, l'ha anche fatta (con successi di nicchia, quelli che amava di più ma che temeva alla stessa maniera), si è persino messo in gioco come attore al cinema: è stato, mostrando la solita lungimiranza e autoironia, un critico, ma teatrale, in Io sono un autarchico di Nanni Moretti, e un funzionario borbonico in Cavalli si nasce di Sergio Staino. D'altronde buon sangue non mente, e si intuisce la parentela alla lontana con il regista e attore Michele Placido (cugino del padre). Ma, nonostante la tirannia del rigaggio limitato non ce lo consenta - lui sapeva sottrarsi anche ad essa - ci sarebbero da ricordare i suoi commenti di costume o le perle di "Nautilus", spazio domenicale di critica letteraria che ha raggiunto vette straordinarie. Piacerebbe annotare le fragilità umane o professionali per onestà, ma francamente Beniamino Placido non ne ha mai mostrate. Perchè della tolleranza, del culto della diversità, della raffinata ricerca dell'eclettismo, in sè e negli altri, ha fatto un dovere (suo) e un diritto (del suo lettore). Forse più di qualsiasi ricordo, vale la pena ritrovare un libricino delle edizioni della Cometa, Caro Beniamino. Scritti per una festa di compleanno che nel 2006 riunì amici illustri (tra gli altri Tullio Pericoli, Nadia Fusini, Massimo Cacciari e l'altro grande vecchio rimpianto Tullio Kezich) a parlare di lui con affetto e con l'ironia e l'intelligenza che avevano contraddistinto le sue critiche. Ne esce un ritratto dolce e anche buffo, in cui il suo accento lucano si unisce a movenze (soprattutto in tv) e atteggiamenti alla Woody Allen. Ottant'anni, ma come accade solo con le menti migliori, ci sono sembrati comunque troppo pochi. Di Boris Sollazzo Liberazione 7.1.2010 Condividi