Il 2009 verrà ricordato come l'anno della più grave crisi economica dai tempi del dopoguerra. In base a una ricerca effettuata su oltre 50 paesi dalla International Labour Organization , in poco più di un anno la grande recessione ha distrutto almeno venti milioni di posti di lavoro, ed altri cinque milioni di lavoratori si trovano oggi sull'orlo del licenziamento (in Italia nel medesimo periodo gli occupati sono diminuiti di trecentomila unità, ed oltre un milione di persone in più sono risultate cassintegrate, disoccupate oppure inattive). Guardando al futuro, i principali istituti di ricerca si attendono quasi ovunque una ulteriore crescita della disoccupazione per i prossimi due anni. Ciò significa che se anche una ripresa economica dovesse farsi tangibile, per molto tempo questa non sarà in grado né di riassorbire i licenziati né di arrestare il flusso di espulsioni di manodopera dal ciclo produttivo. In effetti con dati simili dovrebbe risultare persino imbarazzante parlare di una "luce in fondo al tunnel". Eppure i gattopardi non demordono. Affinché nulla cambi negli assetti del potere, essi confidano in un nuovo, magico sussulto di Wall Street. La speranza è che nuovi picchi nei prezzi di borsa rimettano in moto la finanza americana, rilancino le spese private e portino rapidamente il capitale fuori dalla crisi. Che poi i valori si impennino sulla base di profitti reali o di mere bolle speculative, questo è ormai del tutto irrilevante. Alan Greenspan, ex governatore della Federal Reserve, l'ha detto a chiare lettere: "dal mio punto di vista, i prezzi dei titoli non rappresentano un mero indicatore dell'attività imprenditoriale, ma forniscono un contributo diretto all'attività stessa poiché risollevano i bilanci di esercizio". L'affermazione è di una raggelante onestà. Essa fa piazza pulita di interi trattati di economia ortodossa e sintetizza la logica profonda del capitalismo finanziario contemporaneo. I banchieri d'affari hanno investito in attività gonfiate e completamente fallimentari? Niente paura, il prossimo boom dei valori di borsa darà nuovo lustro agli attivi delle banche private e consentirà di ripartire con la speculazione. Insomma, Greenspan afferma che il boom di borsa ripulisce gli armadi del casinò finanziario dai suoi vecchi scheletri. Come un tempo si diceva della guerra, oggi dunque si può affermare che la bolla speculativa è la moderna, asettica "purificatrice" del sistema. E’ chiaro che siamo lontani anni luce dalla concezione apologetica del capitalismo, secondo cui la concorrenza porterebbe a massimizzare lo scarto tra ricavi e costi di produzione attraverso continue innovazioni tecniche e organizzative, creando in tal modo un surplus di benessere per tutti. In realtà di quella decantata “efficienza” è rimasto solo l’abbattimento del costo unitario del lavoro, realizzato tramite la intensificazione degli sforzi dei lavoratori e lo schiacciamento dei salari. Ma il perseguimento di questo obiettivo crea un divario sempre più ampio tra la capacità produttiva dei lavoratori e la loro capacità di spesa, il che a lungo andare deprime le vendite e con esse anche i ricavi. Ecco allora che gli attivi di bilancio devono essere ottenuti per altre vie, in particolare tramite le bolle speculative. Come riconosce Greenspan, il boom dei prezzi dei titoli risolleva già da sé i patrimoni di banche, imprese e singoli azionisti. Questi soggetti godranno quindi di un arricchimento che magari potrà indurli a comprare più merci. Ma la verità è che dopo il boom dei titoli il circuito del capitale si può chiudere anche in presenza di una domanda stagnante, di colossali eccessi di capacità produttiva e di immense disponibilità di lavoro inutilizzato. Sembra una finzione scenica, una specie di gioco matto, ed invece è la cruda realtà del capitalismo finanziario contemporaneo. Un sistema del genere tuttavia non è fatto per durare all’infinito. Saltare di bolla in bolla si può, ma ad ogni balzo il sistema lascerà strascichi irrisolti, i rapporti di credito e debito si faranno sempre più intricati e i rischi di un tracollo non recuperabile diventeranno sempre più tangibili. Diversi osservatori giustamente ricordano che in realtà i principali indici azionari statunitensi non hanno mai più raggiunto il massimo storico conseguito nel lontano 2000. Ed aggiungono che oggi la risalita dei valori è ostacolata dal clima di sfiducia che ormai circonda il dollaro. Ciò nonostante, per adesso alla giostra delle quotazioni restano saldamente ancorati non solo Greenspan e i gattopardi di Wall Street, ma anche i loro accoliti sparsi in giro per il mondo. Prendiamo ad esempio l’Italia. Al governo e all’opposizione si predica all’unisono lo stesso, risibile indirizzo di politica economica: la parola d’ordine è aspettare, augurandosi che passi la nottata e che al più presto ripartano gli ordini dall’estero di merci italiane. Ma questo allo stato attuale significa una cosa sola: tutte le speranze sono riposte in un nuovo boom dei titoli e delle importazioni americane. Tremonti e Bersani uniti nella bolla, potremmo allora dire. In fondo è proprio questo l’inciucio che dovrebbe suscitare più paura. Esso infatti segnala l’assenza nel nostro paese di forze capaci di elaborare una seria critica all’attuale regime di accumulazione globale, nonostante i disastri sociali che esso sta producendo. L’augurio che allora possiamo farci, in vista del nuovo anno, è che le contraddizioni che esploderanno nei prossimi mesi costringano all’apertura di un dibattito sulla ipotesi di “decoupling”, cioè di sganciamento dal regime finanziario globale. A questo proposito, in altri paesi si inizia a discutere della possibilità che lo Stato non funga più da prestatore di ultima istanza per il capitale privato, ma diventi invece un creatore di prima istanza di nuova e stabile occupazione. Di prima istanza, beninteso, e cioè non per fini di mera assistenza ma per la produzione di quei beni collettivi che dovrebbero ritenersi fondamentali per il progresso sociale e civile dell’umanità, e che da sempre sfuggono alla ristretta logica dell’impresa privata. Sarebbe bene che anche dalle nostre parti se ne discutesse. Il tempo di cavalcare la tigre della finanza o di rivendicare le briciole che la tigre di tanto in tanto concedeva è finito. Condividi