E' stato l'anno della crisi. Degli operai sui tetti e delle banche salvate dai governi. Cosa vedremo nel 2010 quando esploderanno gli effetti sociali della crisi? Ci rifugeremo nei consumi (un po' ridotti, a dire il vero)? Prevarrà l'individualismo, la lotta di tutti contro tutti? Ce la prenderemo sempre di più con quelli che stanno "sotto" e con gli immigrati? Leggiamo quel che ne pensa Franco Ferrarotti, il decano dei sociologi italiani, direttore della rivista "Critica sociologica".
C'è la crisi eppure non si vede un ritorno alla politica, anzi. Il disimpegno nella sfera pubblica si manifesta con una fuga nel privato, non crede?
Pubblico e statuale non si corrispondono. Una volta, dire pubblico significava dire lo Stato, oggi non più. C'è un arrabbattarsi alla base della società ma all'insegna di un individualismo esasperato. Come sociologo noto che a differenza di altri paesi in Italia, forse per la prima volta, c'è un vero disagio sociale. Soltanto che le vittime di questo disagio s'illudono di poterlo risolvere individualmente. C'è una frantumazione del legame sociale a favore dell'individuo. Tutto il contrario di quanto accadeva alla fine dell'800, quando nascevano la Cgil e i grandi partiti popolari. Anche il papato si preoccupava, allora, degli effetti sociali dell'economia, pensiamo alla Rerum Novarum . Oggi, invece, di fronte a un disagio economico, ma anche culturale, anche attinente ai rapporti interpersonali, non si vedono atti di solidarietà tra gil individui.
Però, nel corso del 2009, ci sono stati anche episodi di lotte, no?
Certo, ci sono drammatizzazioni. Chi sale sul cornicione del Colosseo, chi sulla gru. Per essere visibili. Ma dietro questo non vedo il sorgere di un movimento di solidarietà. Addirittura ho saputo di casi di giovani precari che venivano alle mani con altri precari. Siamo alla guerra tra poveri. Il capitalismo celebra il suo trionfo individualistico. La crisi è strutturale. Dopo l'aspetto finanziario ed economico, vedremo nel prossimo anno l'esplosione sociale della crisi, la disoccupazione. E per ironia della sorte, allora sì che il capitalismo avra una forza di ricatto irresistibile nei confronti dei governi. Davvero i governi sono comitati d'affari della borghesia. Sembrava una frase a effetto un po' propagandistica e invece sul serio, i governanti sono dei servi.
Una politica al servizio dei capitalisti. E, in più, incapace di rappresentare davvero la società. Un quadro pessimo, no?
Siamo in una democrazia. Abbiamo una rappresentanza politica, formalmente impeccabile. Ci sono elezioni. Ma questa rappresentanza politica non è più rappresentativa. E' scaduta a rappresentazione. Non è un caso che la politica sia così distaccata dalla realtà. Il politico, anche di sinistra, che va in televisione, è uno che ce l'ha fatta. Con quello stipendio da parlamentare che ha, è come se una saracinesca calasse tra lui e il resto della popolazione. Abbiamo rappresentanti che non si sentono in sintonia con i rappresentati. Questo spiega il politichese, il parlarsi addosso. I nostri politici, quando passano la mattina nelle loro auto blu, fanno pensare a truppe d'occupazione vagamente distratte in un paese straniero che ignorano.
Questa crisi non rischia di alimentare un'antipolitica che fa già parte della storia d'Italia?
Sono d'accordo. Però in Italia si fa più politica fuori della politica ufficiale che non dentro, solo che non viene ancora individuata. Bisognerebbe fare studi più analitici, nei territori, che nessuno sa fare perché la cultura italiana è refrattaria alle ricerche sociali sul campo. Siamo in presenza di una apatia verso la politica ufficiale, ma anche di una forte domanda politica insoddisfatta e frustrata.
E il rapporto tra giovani e politica?
Stiamo assistendo al genocidio di un'intera generazione di giovani. Anche il sindacato è preso nella morsa della sua logica, protegge i già garantiti. Capisco che il sindacato deve difendere quelli che gli danno da vivere con la trattenuta sindacale. E' inevitabile. Però stiamo tornando indietro di un secolo, di nuovo c'è la paura della disoccupazione di massa. Ma mentre in passato c'era un movimento di solidarietà, oggi la paura si traduce in un darwinismo sociale feroce. E' la legge della sopravvivenza. Ciascuno cerca di fare le scarpe all'altro. La competizione capitalistica in qualche modo ha investito tutta la società, è penetrata nei costumi e nei comportamenti individuali al punto da mettere un povero contro l'altro. Oggi l'individuo disoccupato o precarizzato che vive di tre mesi in tre mesi, è formalmente libero sul mercato, ma non ha possibilità di progettare la propria vita e il futuro. Il singolo non ha la forza di rovesciare questa situazione. Non gli rimane che ripresentarsi ogni mattina al call center o in ufficio a fare il promotore finanziario. Questo è il grande capolavoro del capitalismo. Questo fenomeno non è stato studiato in maniera analitica e scientifica, come andrebbe fatto, ma semplicemente deplorato. Non basta deplorare. Qui bisogna andare al cuore del meccanismo.
Eppure c'è da chiedersi: non ci sarà da qualche parte una compensazione, una valvola di sfogo che tiene in piedi il sistema? Non sarà che il consumismo ripaga delle frustrazioni lavorative con la gratificazione dell'ultimo modello di telefonino?
Certo. Ricordo che già una quarantina d'anni fa, in occasione di una mia ricerca fotografica sul ghetto di Harlem a New York, trovai una Cadillac fiammante parcheggiata davanti a una stamberga. Oggi il nostro precario ha il suo telefonino che fa le foto e gira video. Questo consumismo, in apparenza fasullo, ha una funzione compensativa di pseudo-partecipazione sociale. Le Tesi su Fuerbach di Marx si realizzano. Merce-denaro-merce non basta più, c'è il feticismo della merce, la mercificazione di tutti i rapporti sociali. C'è anche una sorta di partecipazione illusoria. La comunicazione diventa, per quanto priva di senso, il mezzo fondamentale per la visibilità. Nessuno si sente escluso. I media operano come una grande fonte di ipnosi collettiva. Guardiamo i politici in tv. Vale più la "pappagorgia" che l'ideologia. E' il trionfo della chirurgia plastica. Nella politica di oggi non vale più la logica cartesiana, chiara e distinta. C'è il colpo di fulmine sintetico, c'è l'immagine che ti impedisce di pensare. Siamo di fronte a un incantamento collettivo. Il disagio sociale viene mascherato e, insieme, rivissuto nei termini di una partecipazione illusoria.
Così però rischiamo di incartarci nel pessimismo. O no?
Non sono pessimista né catastrofista. L'umanità non è fatta per piangersi addosso. Il disagio sociale c'è e non riesce ad avere rappresentanza adeguata. Deve darsela. Sono convinto che qui e là, a macchia d'olio, ci siano prese di coscienza. Purtroppo la cultura politica italiana ha sempre privilegiato il bel saggio rispetto alla slabbrata ricerca del campo. L'unica fonte di dati è il Censis di Giuseppe De Rita. Però restiamo sempre al livello delle metafore. Questo dovrebbe fare la sinistra estrema, extraparlamentare ed extraufficiale: catalogare i gruppi, le associazioni, i centri sociali che stanno prendendo coscienza alle radici del tessuto sociale. C'è una capacità di inventare nuove forme di lotta politica e di resistenza che viene tagliata fuori, che non ha visibilità, che non accede allo spazio pubblico della comunicazione. Occorre renderla presente. Ci sono gli emarginati urbani? Non se ne esce per miracolo. Occorre che chi vive il disagio ne diventi consapevole e lo esprima in forme nuove perché quelle tradizionali lo hanno tagliato fuori. La rivoluzione americana è cominciata con i comitati di corrispondenza sulla costa orientale degli Stati Uniti. Mi sembra che la sinistra italiana troppo spesso dimentichi che i vertici sociali non hanno mai interesse al cambiamento. Il cambiamento non può venire che dal basso che però va conosciuto, indagato, messo in relazione e poi tradotto in forme di rappresentanza nuove, anche fuori dalla rappresentanza parlamentare. Sui giornali non c'è traccia di ricerche sul campo. Sul Wall Street capita di leggere in prima pagina un'inchiesta, un resoconto della visita a un'industria. Qui da noi c'è subito il commento e il fatto è assorbito a sostegno del commento. L'analisi sociologica resta separata. Mi piacerebbe che giornali come Liberazione pubblicassero periodicamente ricerche documentate su temi sociali e sui comportamenti individuali. Non dimentichiamoci mai che Marx aveva alle spalle Engels che era un dirigente industriale e conosceva la vita operaia.
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