di Fulvio Lo Cicero
Le cifre sugli effetti della crisi mostrano l’inadeguatezza dell’attuale maggioranza, impegnata soltanto a premiare evasori ed esportatori di capitali. Mentre i lavoratori dipendenti non hanno beneficiato di alcun provvedimento sul potere di acquisto di salari e stipendi
L’anno della crisi, l’anno in cui più o meno tutti hanno spostato le lancette degli orologi indietro di dieci anni. Partita effettivamente nell’ottobre del 2008 e dovuta a cause eminentemente finanziarie (un superindebitamento delle banche in conseguenza degli acquisti in massa di prodotti tossici, non coperti da garanzie reali), la recessione si è propagata nell’anno che si chiude a macchia d’olio, investendo praticamente tutti i comparti economici, a partire dal settore automobilistico.
I dati dimostrano questa conclusione: il 2009 si chiude nel nostro Paese con una caduta verticale del prodotto interno lordo pari al 4,7%. Ciò significa che l’Italia si è persa per strada circa 80 miliardi in beni e servizi prodotti. Rispetto agli altri Paesi europei, l’Italia si colloca al tredicesimo posto, subito dopo la Spagna, rimarcando un declino che sembra oramai inarrestabile. I dati diffusi dall’Unione europea sono impietosi: posto pari a 100 il prodotto interno lordo pro-capite dei 27 Paesi dell’Unione, quello italiano era 117,8 nel 2001 ed è poi passato a 103,8 nel 2006, 101,9 nel 2007, per scendere a 99,5 nel 2008. Nel 2001, l’Italia occupava il 9° posto in Europa: è sceso al 12° nel triennio 2002-2005 e al 13° dal 2006 al 2008. E il calo della ricchezza pro-capite continuerà: secondo la Ue, infatti, essa sarà pari a 98,6 nel corso del 2010, 98,2 nel 2011.
Sempre meno posti di lavoro
La recessione ha ovviamente colpito pesantemente il tasso di occupazione in un sistema che non riesce a modernizzare le proprie strutture di sistema e, soprattutto, non investe più nel capitale umano (ricerca e istruzione).
Ma anche qui, con differenze notevoli rispetto alla media europea. Infatti, mentre in quasi tutti gli altri membri dell’Unione, l’occupazione è già tornata a crescere a partire dall’autunno inoltrato, in Italia continua a diminuire; in ottobre ha toccato l’8,2%, segnando il dato peggiore dall’aprile del 2004. Solo nell’industria si sono persi 386 mila posti di lavoro, mentre, complessivamente, nel terzo trimestre dell’anno che si chiude i posti di lavoro scomparsi sono stati 508 mila. Secondo la Confindustria, fra 2010 e 2011 si dovrebbero perdere altri 195 mila posti di lavoro. Nel 2011 il tasso di disoccupazione raggiungerà il 9%.
Ad aggravare la situazione, senza dubbio, c’è anche un altro fenomeno che è tipicamente italiano. Molte imprese hanno approfittato dello stato di crisi per avviare pesantissime ristrutturazioni, camuffate con cessioni di azienda, per liberarsi di parte o di tutta la manodopera italiana. Il caso di Eutelia o della Fiat sono sintomatici: la prima, un’azienda sostanzialmente in espansione, con importanti commesse pubbliche, che decide di liquidare le proprie attività per motivi misteriosi, lasciando sulla strada migliaia di lavoratori super specializzati. Solitamente il fine di queste operazioni è quello di spostare interamente le linee di produzione in Paesi quali la Romania, l’Albania, l’Ucraina, la Moldavia, dove il costo del lavoro è meno della metà di quello italiano, per incrementare così il saggio del profitto da distribuire agli azionisti. Il pretesto è, appunto, la crisi economica, che non consentirebbe più margini operativi giudicati soddisfacenti per il management. È la via seguita anche da una grande impresa come la Fiat con lo stabilimento di Termini Imerese: la crisi impone l’internazionalizzazione, cancellando confini nazionali e territorializzazione delle imprese. E così, il “piano Marchionne” prevede il potenziamento dei siti come quello polacco, lasciando senza lavoro i dipendenti siciliani. È la certificazione del fatto che l’Italia non rientra più nei piani industriali delle grandi imprese, che il futuro produttivo si svolgerà altrove dai confini nazionali e che, in sostanza, il nostro Paese è già nel pieno di un declino inarrestabile.
Un Governo inadeguato
L’anno che si chiude segna un’altra certificazione: quella del peggiore Governo mai esistito nel nostro Paese negli ultimi centocinquanta anni. Un Esecutivo che, di fronte al disastro mostrato dai dati e da una situazione sociale complessa, non ha saputo prendere una decisione di politica economica. Le risorse messe a disposizione per contrastare la crisi sono state ridicole (nemmeno 5 miliardi di euro) e non si poteva fare di più, hanno ribadito per tutti i giorni dell’anno i responsabili dei nostri dicasteri chiave, con il superministro Tremonti in testa. Sono stati smentiti all’interno stesso della loro maggioranza, quando, alla fine di ottobre, il Presidente della Commissione Finanze della Camera, nonché docente universitario, Mario Baldassarri, ha approntato una vera e propria “controfinanziaria” riuscendo a liberare risorse per la bellezza di 35 miliardi (20 miliardi risparmiati sulla spesa per acquisti del settore pubblico e 15 sui contributi a fondo perduto), destinandone 15 alle famiglie, 12 per abbattere l’Irap, 7 da investire (fra l’altro nel settore della ricerca), 1 in quello delle forze dell’ordine. Ed anche se il suo piano è stato messo prontamente a tacere dal sistema di potere tremontiano, ha comunque dimostrato – come anche uno studente dei primi anni di Economia e Commercio avrebbe potuto comprendere – che, pur con i vincoli del bilancio pubblico, era possibile fare qualcosa di più del nulla predisposto dagli apparati di governo. Un “nulla” rappresentato, in primissima specie, dalla truffa dello “scudo fiscale”, la solita soluzione di un Tremonti che non riesce ad uscire dai confini della sua antica libera professione (quella di tributarista). Un vero e proprio condono fiscale per tutti coloro che, avendo esportato illegalmente capitali all’estero, li hanno fatti rientrare liquidando allo Stato un misero balzello. E questo improvvido strumento è stato colorato, dalla dissennata fantasia del nostro ministro, come “il più grande movimento di risorse della storia”, in grado di “rivoluzionare” l’asfittica situazione delle nostre entrate fiscali. Soltanto un sistema informativo come quello italiano – di proprietà o controllato al 95% dal Presidente del Consiglio – poteva diffondere una panzana di queste proporzioni e farla credere alla maggioranza del popolo italiano.
Lo sfascio dei conti pubblici
La realtà mostrata dalle nude cifre è, invece, del tutto diversa. Nonostante i forsennati tagli apportati agli apparati pubblici, alla scuola, alla sicurezza, alla ricerca universitaria, agli enti locali (costretti ad elevare l’Irpef comunale e regionale, alla faccia del “non metteremo le mani nelle tasche degli italiani”, anche a causa dell’abolizione tombale dell’Ici sulle prime case, il cui mancato gettito non è stato ancora devoluto dallo Stato centrale ai Comuni), la spesa ordinaria è oramai del tutto fuori controllo, andando ad incrementare il debito pubblico complessivo, avviato a raggiungere e superare la soglia incredibile del 120% del prodotto interno lordo. Si raschia il fondo di un barile oramai bucato e a secco: si confisca il tfr dei lavoratori che lo hanno lasciato in azienda ma, a differenza di quanto prevedeva un analogo provvedimento del Governo Prodi, senza soluzione di scopo, cioè non dichiarando a cosa questi soldi serviranno, creando così le basi per una loro dispersione senza costrutto nei milioni di rivoli della spesa ordinaria. Una follia pari soltanto a quella di tassare i narcoeuro o gli accantonamenti dei falsi in bilancio, già depenalizzato a tempo debito.
E già si prospettano all’orizzonte – largamente anticipate dalle analisi di Vincenzo Visco – i provvedimenti futuri: un condono contributivo ed uno fiscale, con i quali il Governo della destra rafforzerà le già solide sicurezze degli evasori fiscali, sempiterno punto di riferimento di ogni decisione di questa maggioranza politica.
La beffa sui lavoratori dipendenti
Se si premiano gli esportatori di capitali illeciti, si continuano a svuotare i redditi dei lavoratori dipendenti, vero e proprio serbatoio da essiccare per il gettito fiscale. L’anno che si chiude, infatti, si è caratterizzato anche per la totale assenza di un provvedimento a favore del potere di acquisto di stipendi e salari (se si esclude la fallimentare esperienza della "social card", un'elemosina di Stato). Al contrario, il Governo (in particolare il battagliero Renato Brunetta) si è sgolato nell’asserire che essi crescono per effetto degli automatismi previsti dalla legge (in parte già sterilizzati per alcune categorie di dipendenti pubblici, come i magistrati e i docenti universitari), tacendo sugli effetti perversi del “fiscal drag” (il drenaggio fiscale, oramai giunto alla soglia complessiva dei cinque miliardi di euro di imposte in più pagate dai lavoratori dipendenti in conseguenza della crescita solo nominale dei loro redditi) e sulla crescita dei prezzi di un’ampia fascia di beni e servizi primari (pasta, pane, carburanti, banche, assicurazioni), sull’assenza di un sistema universale di garanzia del reddito. Proprio su quest’ultimo punto, l’attuale maggioranza si mostra sorda a qualsiasi richiamo, anche a quelli, più che razionali, lanciati da esponenti moderati dell’opposizione (come Pietro Ichino) e racchiusi in un disegno di legge di riforma complessiva del mercato del lavoro e del sistema delle tutele.
L’Italia del 2009 si è dunque mostrata uguale a se stessa: un Paese disposto ad accettare leggi ad personam e crisi economica, premiando i più furbi e i più ricchi. Come il nostro Presidente del Consiglio.
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