Chissà se qualcuno ricorda, per esperienza diretta o indotta da studi o da narrazioni quella tragicomica pièce di Dario Fo che aveva questo titolo?
La vicenda che Fo e Franca Rame portavano sul palcoscenico con il loro gruppo teatrale militante si ispirava, erano gli anni ’70 del secolo scorso e la guerra del Vietnam era entrata nella sua fase cruciale, alla figura di una storica “signora”, quella figura di donna gigantesca, avvolta nel suo immenso peplo che guarda con sguardo audace davanti a se tenendo alta con la mano destra un’altrettanto voluminosa fiaccola che si staglia nel cielo di una delle baie più famose del mondo: quella di New York.
La signora è di pietra e acciaio ed è comunemente conosciuta come la “statua della libertà”. Ma quale libertà è quella alla quale si ispiravano gli americani inondando di napalm le foreste e i villaggi vietnamiti e bombardando a tappeto le città della parte settentrionale dello stesso paese, con lo scopo di sorreggere un corrotto regime dittatoriale?
Era questa la domanda che Dario Fo si poneva con il suo spettacolo dalla comicità graffiante e dalla denuncia inesorabile. Allora se questa è l’idea che oggi gli americani hanno della libertà, concludeva Fo, la signora (cioè il simbolo eretto su un isolotto della baia di New York, che è il simbolo stesso degli Stati Uniti) è “da buttare”, un logico interrogativo di fronte a quegli eventi raccapriccianti.
Ho rispolverato questo antico, ma sempre attuale, ricordo dall’archivio della memoria per parlare di un’altra storia e di un’altra signora, che non è una statua ma vorrebbe diventarlo. Qui non si parla di napalm e di bombe a frammentazione, ma di politica, in un contesto però che ricorda vagamente, ma non tanto, quella guerra lontana,fatta di trappole, di agguati, di guerriglia, di rappresaglie.
Questa guerra non si svolge come l’altra nel sud est asiatico ma in Umbria e la signora è una donna in carne ed ossa: la governatrice Maria Rita Lorenzetti scesa in campo per difendere il suo terzo mandato. Iniziativa legittima, non c’è che dire, ma che si svolge tutta all’interno del suo partito, il Partito Democratico umbro, che proprio a causa di tale iniziativa si è trasformato quasi in un piccolo Vietnam e dove da qualche tempo, proprio come nel paese asiatico, si sta combattendo una guerra non dichiarata, senza esclusione di colpi.
La signora in carne ed ossa, come quella di marmo e acciaio, si staglia gigantesca , sovrastando una guerra politica che come quella “vera”, lascia sul campo morti e feriti e tante rovine. Sì’, perché come ci insegna Nicolò Machiavelli “le guerre puoi cominciarle quando vuoi, ma non puoi finirle quando ti pare”.
Gli americani in Vietnam sperimentarono amaramente l’attualità della lezione machiavelliana, tuttora di stringente attualità, così come la stanno sperimentando oggi i gruppi dirigenti del Partito Democratico umbro.
Chiaramente l’acceso dibattito all’interno del PD umbro, è perfettamente democratico, ci mancherebbe altro, ma proprio di fronte alla qualità e alla consistenza di tale dibattito che coinvolge il partito che governa la regione da quaranta anni, e molte sue città anche da più tempo, e vede come protagonisti prestigiosi pezzi della sua classe dirigente impegnati a favorire o a contrastare il terzo mandato della signora, porsi la domanda che si poneva Dario Fo può anche venire spontaneo.
Non credo comunque che la signora di cui parliamo sia effettivamente da “buttare” (simbolicamente parlando), ad essa va riconosciuto se non altro l’onore delle armi e ne vanno riconosciuti anche i meriti laddove è necessario, ma il conflitto che la vede protagonista è utile per aprire una riflessione sui livelli del confronto democratico e anche sui suoi limiti attuali, che oggi si riassumono in quella “democrazia del pubblico” che vede il cittadino trasformato in spettatore per assistere alle performances dei leader di partito, così ( per dirla con Ilvo Diamanti) “ la democrazia tende a tradursi nella scelta dello spettacolo che piace di più….”
Ma se questo è vero allora bisogna aspettare quello che tutti i protagonisti di spettacolo debbono giocoforza attendere per conoscere il destino della loro prestazione : l’applauso o i fischi del pubblico in sala.
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