E' vero che l'elegante libriccino di Sergio Luzzatto Bonbon Robespierre , (Einaudi 2009, pp. 121, euro 10,00), intitolandosi appunto col soprannome ironico-benevolo di Augustin Robespierre, fratello di Maximilien, il più importante triumviro del Comitato di salute pubblica, si propone di farne una obiettiva e problematica biografia; ma ci si sarebbe aspettato che questa fosse più ampiamente inquadrata nelle precedenti vicende che della Rivoluzione e poi del Terrore erano state motivazioni e persino giustificazioni.
In tal modo queste centoventi pagine, disinvoltamente scritte - avvalendosi a volte di un lessico più letterario e giornalistico che saggistico ("la vita agra", "una manciata di ore", "fu messo all'angolo", "donna fra le più gettonate della capitale", etc.) rischiano di offrire al lettore non esperto di questo vertiginoso susseguirsi di tragedie epocali, un quadro soltanto esecrabile, quello immediatamente precedente al colpo di stato termidoriano (27 luglio 1794) e all'esecuzione dei due Robespierre e di un gruppo di loro irriducibili sostenitori: sanguinosa conclusione di un processo rivoluzionario reso inevitabile, oltre che dallo scontento della borghesia, dalla miseria di masse di contadini e operai spinti alla disperazione dalla politica di un re, di una regina e di una corte di inetti e di egoisti, oltre che di un'ottusa e arrogante aristocrazia irresponsabilmente ostile ad ogni limitazione dei propri sfacciati privilegi e persino alle moderate riforme del Necker, ben presto sollevato dal suo incarico.
Al termine della sua breve esperienza terrorista, in Augustin - soprattutto nella prima fase delle reiterate missioni da lui compiute espletando i compiti di controllo su tutto il territorio della Nazione sconvolta da violente contrapposizioni politiche e amministrative (la rivolta federalista contro il centralismo rivoluzionario parigino) - s'era verificato un cambiamento certo maturato durante quelle sue prime esperienze di giacobino, fratello dell'uomo più influente e carismatico del nuovo regime rivoluzionario. Mutamento reso ancora più stupefacente, in quanto avvenuto in un giovane uomo in precedenza ritenuto da molti incapace, e persino "imbecille". Ciò che egli dimostrò infine è esattamente il contrario di tali giudizi negativi: la volontà, a volte realizzata in provvedimenti "indulgenti" (aprire le carceri e le chiese, fermare gli "energumeni in berretto frigio" seguaci dell'estremista Hebert, fermare la mano del boia) e di attuare una sorta di "Terrore dal volto umano".
Certo il libro è dedicato ad Augustin Robespierre, ma forse l'A. avrebbe dovuto collocare la vicenda di quest'uomo contraddittorio su uno sfondo sociale e politico meno partigiano in funzione antiterroristica: ogni rivoluzione infatti si conclude da sempre con una fase "terroristica", cui succede sempre un "regime" equilibrato e, a volte, reazionario: un esempio di importanza millenaria è la rivoluzione romana di Cesare, cui succede la blanda restaurazione di Augusto. L'A. si concentra invece sulla fase terrorista, quasi ignorandone le cause più gravi: il bellicismo della Gironda, l'alleanza delle maggiori potenze europee contro la Francia repubblicana, le sanguinose sollevazioni vandeane e bretoni causate e dirette dal clero, l'aggravarsi della crisi economica interna, il passaggio del capo della Gironda dalla parte degli aggressori stranieri.
Pur essendo priva di tale sfondo, la vicenda di Robespierre le petit è tuttavia narrata con efficacia, seguendo la strana contrapposizione dei suoi stati d'animo e della collocazione politica, evoluta progressivamente verso uno strano "Terrore gentile" e persino verso una risoluta pratica dell'"indulgenza", per esempio opponendosi alla pratica violenta della scristianizzazione imposta dai sanculotti Hebert e dal prete spretato Lebon; atteggiamento politico vicino al suo temperamento poco incline alla violenza e non estraneo ai piaceri del "buon vivere", che ebbe il risultato di conciliare alla causa giacobina una fervida simpatia delle popolazioni provinciali. Tutto ciò senza infrangere il rapporto di piena lealtà fra i due fratelli, il grande Maximilien e il "piccolo e mite" Augustin.
Ad un certo punto l'A. si chiede come fosse stata possibile una così profonda diversità fra i due fratelli. E crede di poterla motivare con una semplice "differenza di carattere": «Da sempre, fin dai tempi della sua infanzia infelice di primogenito senza genitori, Maximilien era stato un uomo austero, disciplinato, severo con se stesso prima ancora che con gli altri. Augustin invece, era stato sempre un bon vivant : non privo di doti, ma incline alla dissipazione piuttosto che all'applicazione, ai piaceri piuttosto che ai doveri». Questa differenza di carattere era certa, ma forse, poiché i caratteri si formano e cambiano sulla base della esperienza, il continuo movimento in missioni importanti compiute da Augustin, e il suo constatare che la sua indulgenza procurava più successi umani e politici che non la spietata durezza, potrebbe far sospettare una sua segreta ambizione: ottenere appunto risultati politici maggiori dei suoi colleghi, e persino del suo temutissimo fratello.
Forse Augustin, esortando Maximilien a ispirare la sua febbrile ma buia e solitaria attività a maggiore comprensione degli "altri", e soprattutto della gente semplice delle province, da fratello e militante in sottordine si sentiva così un gradino più in alto di lui. Del resto il testo stampato in quarta di copertina del volumetto, giustamente conclude: «A forza di guardare in faccia il terrore (Augustin) comprese che fermando la metastasi della violenza si potevano preservare le conquiste rivoluzionarie. Soltanto terminando la Rivoluzione si poteva salvarla.» Ma questo mutamento di rotta non poteva riguardare l'intero schieramento giacobino, e del resto era troppo tardi perché ciò accadesse, mentre già un "terrore bianco" reazionario, quello della jeunesse dorée e dei muscardins , dava la caccia spietata agli ultimi gruppi di giacobini.
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