Sulle pagine di Umbrialeft si è aperto da qualche settimana un interessante dibattito con diversi contributi attorno alle questioni dell'Italia mediana e del ruolo che in quest'area potrebbe avere l'Umbria: un dibattito che ha il pregio di spostare in avanti la discussione, in una dimensione che si potrebbe definire post crisi, o, se si vuole, sul come attrezzarsi per affrontare la fase che si aprirà nel post crisi. E questo avendo ben presente che la crisi non è come la notte hegeliana dove tutte le vacche sono nere, ma dentro la crisi si aprono dinamiche e si modificano assetti: dalla crisi alcune realtà ne escono, ne usciranno rafforzate, altre ulteriormente indebolite. L'Umbria corre seri rischi di uscirne indebolita, perché si porta dietro un fardello di ritardi e strozzature che nel corso di questi ultimi quindici anni solo parzialmente sono stati attenuati.
Volendo usare un'espressione sintetica che caratterizzi lo sviluppo umbro, bisogna parlare di immobilismo relativo, per cui nonostante i flussi, non certo di poca entità, di risorse pubbliche, le distanze (o il gap come si usa dire) tra Umbria ed aree del Centro-Nord in questo ultimo quindicennio non è diminuito. Gli indicatori a conferma di questo immobilismo relativo sono numerosi e diversi, primo fra tutti il PIL per abitante che nel 1995 era circa 20 punti al di sotto del valore del Centro-Nord e nel 2007 e 2008, quando ancora la crisi non aveva iniziato a mordere, continua a mantenere la stessa distanza di 20 punti. Stesso andamento presenta un altro indicatore, il Valore aggiunto per addetto, ovvero la produttività grezza, nel 1995 13 punti al di sotto del valore del Centro-Nord, nel 2008 16 punti. E questo della bassa produttività e quindi della bassa competitività delle produzioni umbre, nonostante i redditi da lavoro dipendente, e quindi i salari, siano costantemente di 10 punti inferiori a quelli del Centro-Nord, è indubitabilmente il grande problema, la questione delle questioni: una bassa produttività che è figlia di molti fattori, a partire da un basso livello di innovazione. Al 2006, ultimo dato disponibile, il complesso della spesa in R&S era pari in Umbria allo 0,9% del PIL rispetto all'1,3% del Centro-Nord. La spesa delle imprese in R&S, sempre al 2006, in Umbria è pari al 22% del totale contro il 53,6% del Centro-Nord. Una bassa produttività che è anche figlia di una particolare composizione merceologica delle produzioni umbre, o, per dirla con un termine antico, di un tipo di modello di specializzazione produttiva, che vede la struttura umbra fortemente dipendente da un lato dal ciclo delle costruzioni, dall'altro dal mercato dei consumi e quindi fortemente esposta ai mutamenti congiunturali. Mentre relativamente scarsa è la presenza di produzioni di beni intermedi e di investimento. E che dire della forte presenza di lavorazioni in subfornitura e di un tessuto di piccole e piccolissime imprese con scarse relazioni sistemiche (l'assenza di economie distrettuali). E mi fermo qui.
In tutti questi anni le politiche regionali hanno cercato di imprimere all'economia umbra quella marcia in più che permettesse di superare questi ritardi e sciogliere problemi strutturali che si trascinano da anni. Con realismo bisogna prendere atto che la situazione non è di molto migliorata. Sicuramente sono stati commessi degli errori, dei gravi errori, a livello di strategie e di politiche generali. E su questo è necessario, una volta per tutte, un serio esame critico. Ma, senza che ciò appaia come facile assoluzione di responsabilità, molto probabilmente era la stessa dimensione umbra a rendere complicata e difficile la soluzione di problemi di quelli portata che inerivano la struttura stessa dell'apparato produttivo regionale. Da questo punto di vista l'idea di ragionare su di una dimensione di Italia mediana può costituire l'ambito ottimale nel quale tentare di aggredire e risolvere quei problemi di carattere strutturale che da sempre affliggono l'economia regionale. La cosa è resa ancora più urgente dalla crisi che, inevitabilmente, stresserà ulteriormente i sistemi regionali, cumulandosi ad un altro fattore di stress derivante dal federalismo fiscale. Per cui se non si trova (e rapidamente) una via di uscita, l'Umbria si troverà ben presto doppiamente penalizzata. La ripresa, una ripresa che, lungi dall'essere dietro l'angolo, sarà comunque fortemente selettiva, verrà affrontata dall'Umbria con una struttura economica con quei ritardi ai quali prima si accennava, mentre il venir meno di ricchezza prodotta e federalismo fiscale renderanno sempre più insostenibili gli attuali livelli di welfare. Le ultime previsioni UE per l'economia italiana (per l'Umbria non sarà certo diverso) danno per il 2009 un calo del PIL del 4,7%, cui seguirà nel 2010 una ripresa dello 0,7%, il che vuol dire che la ricchezza prodotta nel 2010 sarà di 4 punti inferiore a quella del 2007, il che vuol dire che per tornare ai livelli del 2007 dovranno ancora passare degli anni, ed è in questi anni che si giocheranno i destini dell'Umbria.
Ferma restando la necessità di una rivisitazione critica delle politiche sin qui seguite, a partire dalla poca selettività degli interventi ad una mancanza di politiche di sistema, a problemi generali di strumentazione e governance dello sviluppo, molto probabilmente bisogna iniziare a ragionare sulla dimensione nel quale far agire nuove politiche e strategie e forse quella dell'Italia mediana può rappresentare un orizzonte praticabile ed ottimale.
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