di
Isabella Rossi
Le ragioni della scienza e quelle della fede si scontrano ancora una volta in “Vita di Galileo”, il dramma di Bertolt Brecht, opera chiave del XX secolo, presentato con successo di pubblico al Teatro Morlacchi di Perugia dal 28 ottobre al primo novembre. La mediazione tra le due è spesso ardua, a volte impossibile.
Da un lato la spinta alla democratizzazione del sapere che anima la ricerca scientifica, e che infiniti progressi ha portato al genere umano, dall’altro la “necessità” di non divulgare informazioni che potrebbero minare l’autorevolezza di un ente religioso investito di potere temporale. In mezzo l’intellettuale Galileo, un impeccabile Franco Branciaroli, con le sue debolezze, “l’idea del cannocchiale rubata agli olandesi” – e il desiderio di portare avanti, nonostante tutto, la missione a cui si sente chiamato, spesso trascurando “gli effetti secondari”.
Corre l’anno 1633 quando il fisico è costretto all'abiura delle sue concezioni astronomiche e all’isolamento per il resto della sua vita. L’alternativa alla resa sarebbe stata la condanna a morte.
I conflitti della coscienza sono in questa opera, scritta tra il 1938 e il 1939 in pieno regime nazista, l’aspetto più significativo. Su di essi non aleggia un giudizio ultimo e incontrovertibile ma si concentra una prospettiva umanista, in contrasto con la necessità di una polarizzazione tra “la ragion di stato” e “i suoi nemici”, tipica di ogni regime totalitario. Se il sistema copernicano con la teoria eliocentrica negava la centralità della “creatura divina” uomo, l’umanesimo, humus culturale della scienza moderna, la riguadagnava sotto un altro aspetto: quello intellettuale.
Galileo scampato alla morte inflittagli dal potere totalitario recupera la sua dignità di uomo continuando le ricerche scientifiche. La libertà intellettuale, come quella della coscienza, erano negate nella Germania nazista come lo sono in qualsiasi concezione assolutista che subordina i diritti universali dell’umanità al mantenimento del proprio potere.
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