di
Isabella Rossi
Torna a Perugia l’attore, regista e autore del “Racconto del Vajont” e di I-TIGI, pioniere del Teatro di narrazione in Italia. Marco Paolini, affabulatore di provato talento, attinge la sua forza proprio da quelle voci di periferia, nella loro “ingenua” integrità, capaci solitamente di verità ai margini delle Storia.
In “Miserabili, io e Margaret Thatcher” l’operazione teatrale si percepisce come diametralmente opposta.
Diversamente da quello che succedeva in “Album d’Aprile”, presentato a Perugia nella stagione di prosa 2008/2009, la storia qui non ha il sapore di un percorso in divenire, di un puzzle costituito dai frammenti di vita minima. Protagonista non è più quell’immaginario collettivo delle piccole cose, un universo caratterizzato con originalità e freschezza dei toni, che Paolini ha saputo rivelare con delicata ironia e sprazzi di umorismo.
Stavolta la Storia, si diceva, sembra al contrario calata dall’alto. Ovvero, pur mantenendo salde le intenzioni del teatro civile, si fanno strada una certa tendenza dei personaggi allo stereotipo e una retorica un po' abusata. Entrambi sembrano dipendere da un progetto diverso, o meglio ancora inverso a quello che si percepisce solitamente nel lavoro dell'artista: calare il paradigma storico, nello specifico il fallimento del capitalismo, nelle storie minime, forzandole ad un risultato. Questo non rende lo spettacolo inguardabile, ma lo priva di una caratterizzazione forte, indebolendo il pur apprezzabile lavoro messo in cantiere.
Una trasferta di una compagnia teatrale diretta in Polonia, quando ancora il muro c’era tutto ed era un’invalicabile lastra di cemento, e la macchina in panne al confine con la Cecoslovacchia fornisce il pretesto per un frizzante racconto di frontiera. Citato è Karl Marx, con “il capitale che distingue l’uomo dall’animale”. Offerto è un parallelo: la già globalizzazione dei ruggenti anni 20 e quella di oggi. Effetti generati: “si chiudono le fabbriche e si aprono i solarium”. C’era una volta, insomma, Gelindo: dai campi alla fabbrica. Poi è arrivato il walkman che ha vanificato gli sforzi di una generazione, divisa dalle ideologie, ma unità nella costruzione di un più solido e moderno patto sociale.
Miserie, come la deregulation thatcheriana e il conseguente crollo finanziario del 2007. Paolini vaglia, associa e rimescola fornendo un quadro convincente delle illusioni di un vivere a cui Victor Hugo, senza esitazioni, darebbe asilo nel suo storico romanzo.
Non ci sono dubbi: la convenienza ad ogni costo e la ricchezza come categoria nuova e allucinata del vivere contemporaneo, hanno mostrato il loro limite. Peccato che, abbandonato Gelindo, caso esemplare, Paolini si concentri a dare forza ad uno altro stereotipo, ancora una volta funzionale nella sua ricostruzione a fornire la base empirica ad una teoria.
In particolare sono alcune storie di ordinaria avidità a tracciare una debole, o quanto meno zoppa, topografia del fallimento. C’è la donna di Geolindo, che chiese quand’è il primo maggio e fece breccia per questa sua “estraneità politica” nel cuore ingenuo dell’agricoltore. Poi la ricca signora che scopre la miseria come viaggio esotico ai confine della realtà. A Margaret, intendiamo Thachter, va invece il primato dell’avidità, il vero motivo del disastro economico e sociale, si evince. Un refrain del trio musicale “Mercanti di Liquore”, quasi alla fine dello spettacolo, conferma: “sei miserabile”. E aggiunge sentenziando: “Solo lavoro, niente vacanze e nemmeno un figlio e mi chiedi perché sei miserabile?” A completare la carrellata c’è poi un’Italia personificata da un monologo: “Aveva “gli occhi ardenti e un bel gesticolare, il seno prominente e un’aria familiare”. Dopodichè ci si è messa la globalizzazione e l’Italia, incontrata al supermercato col carrello al reparto surgelati, era magra, con gli zigomi rifatti in cerca di grissini. Povera Italia.
Nelle quasi due ore ininterrotte di spettacolo di sabato scorso, nella prima replica umbra al teatro Cucinelli di Solomeo, l’artista veneto trova anche tempo per un’interrogazione sulla “ seconda legge della termodinamica”. Dopo sadiche incursioni tra il pubblico riesce a farsi dare da “ Solomeo”, la definizione di Entropia. Sbaglia però a citare una frase di Mitterand. Lo corregge una signora in sala provocando una leggera ma visibile stizza. Provaci ancora Marco. La prossima andrà sicuramente meglio.
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