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Agli albori del regionalismo italiano, nei primi anni 70, il Presidente della Giunta regionale dell’Emilia Romagna, Guido Fanti, elaborò un documento molto significativo e rappresentativo di quelle che all’epoca erano le aspettative delle istituzioni e delle popolazioni del centro nord d’Italia rispetto alla nascita delle Regioni. Era un documento che trovò l’adesione della maggior parte delle Regioni italiane del centro nord, allora definite regioni rosse, ma fu sostenuto anche dal Veneto dei Rumor e dei Bisaglia e, di fatto, costituiva molto prima del federalismo leghista, un primo ragionamento su un regionalismo forte fondato su un modello sociale solidale ed efficiente. Queste infatti erano le caratteristiche su cui le Regioni dell’Italia mediana ma, all’epoca anche Lombardia, Liguria e Piemonte, stavano consolidando quello che sarebbe diventato il welfare regionale. Un modello che allora garantì la crescita e lo sviluppo economico e sociale di queste regioni con particolare riferimento alla piccola e media impresa; consolidò e rese più efficiente ed equo lo stato sociale in confronto alle direttive nazionali in materia dettate dalla DC con i suoi approcci più paternalisti e clientelari; garantì la partecipazione delle lavoratrici e dei lavoratori alla cosa pubblica; contribuì grandemente alle riforme sanitaria e sociale nonché all’affermazione dei diritti civili; insomma gettò le basi della modernizzazione del Paese. Quel regionalismo spinto, a differenza dell’attuale federalismo leghista, non muoveva dalla contrapposizione selvaggia al Mezzogiorno d’Italia che scontava ritardi e contraddizioni nei processi di democratizzazione, di industrializzazione e di modernizzazione della macchina statale e pubblica e della sua società civile. Anzi. Gli estensori di quel documento, per quanto nel loro vocabolario vi fossero addentellati i dialetti delle valli padane e dei valichi appenninici, erano figli del miglior meridionalismo italiano, quello di Salvemini e Gramsci, tanto per intenderci. E nella loro coscienza di uomini di governo e di rappresentanti delle nuove istituzioni regionali, avevano un senso di responsabilità eccezionale, sentivano sulle loro spalle cioè la responsabilità e il peso della storia: per loro, le Regioni avrebbero potuto e dovuto contribuire alla modernizzazione riformatrice del Paese. Quella classe dirigente e la società politica e civile che la esprimeva si posero oggettivamente come avanguardia storica della riforma dell’intera società italiana per superare in forme inedite di solidarietà e di innovazione, le sue contraddizioni storiche. La strada era tracciata: anche il meridione d’Italia poteva percorrerla se solo avesse abbandonato la tutela e la cappa asfissiante della DC e dei suoi metodi di governo. Non lo fece e perdurò nei suoi ritardi. Oggi, io credo che sia necessario riaprire un ragionamento in Italia forti di un nuovo spirito riformatore. Ci sono in questo Paese delle specificità che sono figlie di quella storia: sono le regioni dell’Italia mediana. La sfida che queste regioni possono muovere all’intera società italiana e alla stessa Weltasschaung federalista, rimette in campo le ragioni profonde della sfida riformatrice di allora: welfare, sanità pubblica, qualità della vita, democrazia, partecipazione, sviluppo sostenibile, diritti del lavoro, identità solidale di territorio come direttrici e fondamenta di una nuova stagione delle riforme in Italia. Queste Regioni possono ancora e per certi versi costituire un altro modello da frapporre al federalismo liberista e selvaggio che avanza prepotente dal nord e quello tuttora instabile ed in forte deficit di modernizzazione del sud con i suoi atavici problemi. Un modello che possa fare da cerniera tra nord e sud del Paese e fungere da garanzia di continuità ed integrità territoriale. Un modello che per tornare ad essere attrattivo e soprattutto vivo deve però recuperare il suo smalto e il suo spirito migliore: queste regioni debbono avere il coraggio di più incisive riforme nel campo del lavoro, del welfare, della sanità pubblica. Solo così, da riflessione lodevole ed auspicabile dei rappresentanti delle istituzioni e della classe dirigente del centrosinistra si può giungere ad una piena consapevolezza delle popolazioni di far parte di un qualcosa di unico per cui vale la pena tornare ad impegnarsi ed a mobilitarsi. Una nuova stagione riformatrice di cui le popolazioni possano sentirsi protagoniste vive ed attive e toccare da subito, nella loro vita quotidiana, gli effetti benefici, per farli sentire parte di un nuovo progetto di stato sociale e di sviluppo sostenibile. Su questa linea di progetto e di intervento si inseriscono anche proposte di legislazione innovativa come quella da noi sostenuta in Umbria dell’istituzione del reddito sociale atte a fronteggiare con più incisività questa crisi ma che valgono anche come strumento di inclusione sociale in condizioni ordinarie. Una legislazione che ci consentirebbe di allineare le nostre regioni con le migliori esperienze del welfare di altri paesi europei. Risulta positiva questa nuova consapevolezza che sta nascendo nelle regioni dell’Italia centrale, anche di fronte all’incancrenirsi di questa crisi economica e di fronte alla inadeguatezza delle risposte del governo Berlusconi. Il Centro Italia, dunque, si mobilita. Ben vengano tutte le iniziative di confronto e di mobilitazione come quella prevista a Cagli domani 28 ottobre dove si riuniranno i rappresentanti delle Regioni, delle Province e di tanti enti locali di Emilia Romagna, Toscana, Umbria, Marche e Lazio. Noi vogliamo rilanciare un patto per il centro Italia. Sia quella la prima occasione per lanciare la convocazione degli stati generali dell’Italia mediana per riaprire così una nuova stagione di mobilitazione contro il governo Berlusconi, per varare una nuova stagione politica e sociale riformatrice di cui l’Italia di mezzo sia la protagonista, di rispondere alle sfide dei nostri tempi duri compresa quella del federalismo che non ci deve cogliere impreparati. Giuliano Granocchia Condividi