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di Adelaide Coletti Sono numerosi i campi privilegiati d’osservazione della capacità dello Stato e delle sue istituzioni di esercitare attraverso le politiche di parità un’azione disciplinante in materia di relazione tra i generi. Si può ad esempio far riferimento alla gestione pubblica della violenza maschile sulle donne che si consolida assieme ai dispostivi sullo straniero, la marginalità, la psicopatologia, in una specie di esternalizzazione del problema. Si focalizza l’attenzione sulla donna che da soggetto di autodeterminazione diventa oggetto di normazione di uno Stato padre-padrone che si arroga il diritto di proteggerla con soluzioni legislative di stampo repressivo, e così procedendo recepisce e allo stesso tempo rafforza il pesante retaggio patriarcale della nostra società, salvo poi – per dirla con le parole dell’appello “maschilismo di stato, morte della democrazia”- ricoprire il ruolo di utilizzatore finale di prestazioni femminili per i propri svaghi, giocati in luoghi destinati a fini pubblici. Legittimare lo Stato nel ruolo di protettore significa dipendere dalle sue regole, le quali operano una costante divisione dei “bisognosi”. Così le donne che si comportano “ per bene” sono degne di protezione, alle altre che generalmente non sono italiane, ne bianche sono riservati i pacchetti sicurezza, la legge Carfagna, i centri di detenzione. E’ proprio la commistione tra il crescente protagonismo dello istituzioni relativo alle politiche genere e le tecniche di governo dirette dalla donne ad aver contribuito all’annichilimento del movimento femminista nel quadro del progressivo dispiegarsi,a partire degli anni 80, delle politiche liberiste che hanno distrutto lo stato sociale. Il quadro accennato può servire anche a contestualizzare il dibattito che si è aperto,tra le pagine de “L’Unità”, da parte di alcune donne che fanno riferimento al quotidiano. L’intento sembra essere quello di promuovere un mobilitazione femminile in autunno e la motivazione di fondo di questa chiamata alla piazza è l’indignazione circa le abitudini sessuali di Berlusconi, la mercificazione del corpo delle donne perpetrata dai mass media e da una politica che si sostanzia nell’intreccio sesso - denaro - potere usato come un’ arma di fascinazione e ricatto che ogni donna prima o poi incontra nel percorso volto alla sua realizzazione, considerata esclusivamente nell’accezione liberale e dunque come possibilità opportunistica di vincere la competizione con gli uomini e affermarsi nell’arena professionale. Questi argomenti sono l’unico focus di un dibattito che ne omette la connessione con le reali condizioni di vita delle donne -native e migranti- nel nostro paese, determinate da interventi etici che riportano i corpi a contenitori biologici, dalla privatizzazione dei servizi, dal doppio carico dal lavoro produttivo e riproduttivo, dalle politiche xenofobe, nonché della complicità femminile con i meccanismi di cooptazione del potere. All’omissione di questioni politiche nodali si somma l’esclusione dei soggetti della trasformazione: barricate dietro il paravento del presunto silenzio delle donne, escludono tutto ciò che si muove nella società. Da anni ormai si stanno ricostituendo e costruendo reti femministe, che si riprendono lo spazio pubblico delle città e che agiscono nella materialità dei conflitti: che si sono fatte promotrici di due manifestazione nazionali contro la violenza sulle donne e le politiche securitarie. Nel corso della prima che si è tenuta nel 2007 ben 150 mila donne sono scese in piazza in un corteo femminista, antirazzista denunciando il familismo imperante, le politiche securitarie fatte in nostro nome; l’evento cadeva a ridosso della fase in cui il governo Prodi, a seguito dello stupro e dell’uccisione a Roma della Reggiani da parte di un cittadino romeno, con decretazione d’urgenza emanò il Pacchetto Sicurezza. In quel caso parteciparono anche alcune dirigenti del Pd, che pur non condividendo evidentemente i contenuti della manifestazioni, cercano di ritagliarsi uno spazio di visibilità, e addirittura fecero montare un palco non autorizzato divenendo così inevitabilmente oggetto di dure contestazioni. Lo scorso anno la manifestazione si è aperta con lo slogan “Indecorose e libere” che riassumeva il testo dell’appello volto a evidenziare i nessi tra la legge Carfagna e la riforma Gelmini a dimostrazione che la violenza a tante facce, e una di queste è quella istituzionale, perpetrata dalle riforme del lavoro,della scuola e dell’università il cui obiettivo è quello di renderci sempre più precarie e dipendenti. Vista la radicalità dei contenuti e l’indomabilità delle soggettività incarnate che hanno promosso la manifestazione, e memori delle contestazione del 2007, quelle che Dominijanni definì “le monopoliste della politica” hanno disertato la piazza, e il corteo è passato in secondo piano sui loro media di riferimento, compresa l’Unità. La possibilità di rilanciare l’inestricabile nesso tra pensiero e pratica femminista passa anche dall’eccedere un agire politico che non vuole comprendere i rapporti di riproduzione del potere in cui siamo tutte/i collocate/i. Condividi