di Isabella Rossi
Un’anteprima nazionale destinata ad un’eco internazionale quella di venerdì scorso al Teatro Comunale di Gubbio, nell’ambito della manifestazione “Life in Gubbio”. Il nuovo spettacolo di Erri de Luca “Fili” non farà parlare di sé solo in Italia ma anche in Francia, dove lo scrittore napoletano è molto amato.
E non solo perché il suo precedente lavoro teatrale, 'Chichotte e gli invincibili', ha raccolto lì un grande successo di pubblico e critica. Francia e Italia, Napoli e Parigi sono in “Fili” i luoghi della memoria perduta. Tutte storie tratte dall’opera dello scrittore e separate da brevi intermezzi musicali. Piccoli incursioni nella canzone napoletana con in braccio una chitarra e di fianco Aurora, nipote cantante di De Luca. Sul palco un segno fisico della scrittura. Una lettera dell’alfabeto ebraico, il simbolo di un albero che ospita gli elementi: acqua, fuoco, legno e pietra.
Tanti i temi cari alla poetica di Erri De Luca ripercorsi nello spettacolo. La scrittura, dagli esordi: “Scrivevo storie che non avevano l’obbligo di sorridere” alla maturità. Mai vissuta come sforzo, ma come momento di libertà e dignità. E la Napoli del dopoguerra “dove migliaia di marinai americani in libera uscita sversavano la vescica”. Allora era “una città del sud del mondo, ora è una sfumatura del nord”. La Napoli con la povertà e la maturità di bambini già adulti. Le insormontabili divisioni tra i ricchi e i poveri. Poi quei giorni di liceo, quando “un quarto d’ora prima della rivolta studentesca la scuola era ancora saldamente in mano alla gerarchia scolastica” e dove la massima lezione è una lezione di umanità che arriva dal professore di greco e latino. In ogni frammento affiora la Storia.
Quella che partendo da una narrazione intima attinge forza da un linguaggio poetico ed evocativo e diventa esperienza collettiva. Oltre alle performance di bravi attori, quali Gianni De Feo, Nicola D’Eramo, Marco Simeoli, è proprio il tono della narrazione di De Luca a perforare lo schermo di apatia collettiva. La voce dello scrittore attraversata da una calma lucida ed inusurpabile, un’umiltà fiera e irriducibile, conduce il filo della memoria là dove i riflettori non guardano mai, non guardano più, non vogliono guardare. In quei luoghi dove la realtà è “gravida di sofferenza e bellezza” e dove “il dolore è come un chiodo che ordina lo spazio intorno”. E’ lì che si nasconde la memoria perduta, la capacità di un popolo di muoversi a dignità e solidarietà. In quella memoria tutta la consapevolezza sottratta all’identità collettiva di un paese.
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