Pd. Un congresso in sordina La campagna congressuale del Pd si snoda nell’indifferenza del Paese, e nei ritagli della comunicazione politica. Nulla a che fare con i sogni (in senso esaltante) del popolo delle primarie. Eppure il prossimo congresso del Partito democratico ha un’importanza particolare perché si svolge nel pieno di una crisi politica che può mettere in discussione le ragioni della nascita del Pd, una crisi segnata da un biennio di gestione straordinaria del partito in cui si è camminato con il passo del gambero, e da una serie di sconfitte elettorali a seguito delle quali il Pd ha perso milioni di elettori. Credo che in casa Pd ce l’abbiano messo tutta perché andasse a finire così. Metto al primo posto la lunghezza della fase transitoria, durata due anni dopo le elezioni primarie del 2007, ma in realtà almeno tredici dopo la prima proposta dell’Ulivo, una decina dei quali spesi malamente, e inutilmente, in attesa del nuovo partito, e gli altri due in attesa di una assetto ordinario, considerando straordinaria la fase in cui si sono predisposte in fretta e furia e senza partecipazione reale le regole del gioco, in particolare lo statuto e la carta dei valori, peraltro rimasti nei cassetti in misura non indifferente. Credo che di ciò debba chiedersi conto a una classe dirigente dei due partiti maggiori azionisti del Pd, assolutamente non all’altezza del compito storico che gli stava dinanzi. Pensavano che, aspettando, le mele sarebbero maturate cascando dall’albero, con la sola fatica di raccoglierle. Stavano a chiacchierare mentre passavano gli autobus; ogni tanto un autobus si fermava e loro non ci salivano sopra perché mancava qualcuno, e aspettavano quello successivo. Loro stavano fermi, ma le cose camminavano. 13 anni fa non c’era lo strapotere di Berlusconi, sulla scia di consensi popolari conquistati in parte con le Tv private e pubbliche e per il resto con la crisi di rigetto provocata dal fallimento delle coalizioni di centro-sinistra e centrosinistra una volta affacciatesi dal balcone del governo. 13 anni fa c’era un partito della destra fascista che faticava ad essere accolta nel club dei forze politiche presentabili ai sensi e per gli effetti della storia italiana post-resistenziale. Oggi quel partito non c’è più come tale, si è fuso nello schieramento berlusconiano, capta consensi nell’elettorato anche di sinistra e dispone di un sindacato confederale che è ormai ammesso nel salotto buono delle relazioni sindacali. 13 anni fa c’era una sinistra che si autodefiniva radicale, con la quale in casa Pd si pensava di colloquiare come interlocutori privilegiati di un partito nuovo da costruire tutti insieme appassionatamente. Era una sinistra immaginaria che oggi si è diluita nel marasma della crisi del comunismo e del socialismo italiano, europeo e mondiale (crisi fortunatamente scansata tempestivamente con la chiusura del Pci e della Dc, e con la accensione del faro del Pd, per ora solo una lampadina). Oggi questa sinistra ha perso qualsiasi ruolo politico che non sia quello di raccogliere il malcontento generato dall’appassimento del Pd, un partito programmaticamente riformista e a vocazione maggioritaria, ma più sulla carta che nei fatti. 13 anni fa la Lega Nord era ancora un fenomeno locale, folkloristico e un po’ buffo, con i suoi riti pagani, le stramberie dei leader sulla cui incultura veniva esercitata una sapida ironia, e con le sue divise strapaesane. Oggi è diventata la terza forza politica del Nord (la seconda in molte aree della Lombardia e del Veneto) con Bossi vice presidente del consiglio e dominus della coalizione di destra, con un radicamento territoriale diffuso anche in zone operaie e che sta varcando la linea gotica, con delle divise non più solo verdi che cominciano a impensierire. 13 anni fa non c’era l’Italia dei Valori a contenderci i consensi popolari, sulla base di un’opposizione epidermica al berlusconismo, che il Pd aveva ritenuto di addomesticare includendola nelle sue liste elettorali ed utilizzandola strumentalmente in vista di una improbabile fusione organica. Si pensava che il partito di Antonio Di Pietro fosse un fenomeno passeggero e che il travaso di votanti a suo favore fosse un voto in libertà. E forse si continua a pensarlo. Ma in politica non esistono voti in libertà, esistono voti persi che non rientrano a casa: ce l’insegna l’esperienza della Dc quando Andreotti ad Arcinazzo si illuse di addomesticare un Movimento sociale in ascesa. Eccetera. Per concludere brevemente che in questi 13 anni l’Italia è cambiata in modo tale che uno che si ridestasse da un coma lungo tredici anni si chiederebbe se si è svegliato in un’altra galassia. E in effetti siamo entrati in un altro mondo che il Pd fatica a controllare dentro un vaso al fondo del quale non siamo sicuri sia contenuta la speranza ultima dea. La speranza che passi un altro autobus che passerà sicuramente, ma da come va la campagna congressuale sarà un autobus piccolino, non quello gagliardo che avrebbe dovuto portare masse di italiani alla meta di un viaggio trionfale, bensì uno più piccolo riservato ai soli abbonati. E neanche a tutti. E intanto quelli che si sono dati da fare per arrivare a questo punto, invece di chiedere scusa, si contendono la leadership per completare la loro opera. Condividi