di Isabella Rossi
“Giotto o non Giotto” non è sembrato essere affatto il problema, sin dall’inizio. Nemmeno quella disputa artistico-culturale scaturita dopo il diniego del vescovo di Assisi, Monsignor Domenico Sorrentino, di mettere in scena sul sagrato della Basilica di San Francesco il nuovo spettacolo di Dario Fo, lo è stata.
Altrettanto vana è risuonata l’accusa “di aver inviato lui stesso lettere di cittadini indignati ai giornali” con lo scopo di far montare la polemica. “Chi può essere tanto ingenuo e autolesionista?”. Il premio nobel ottantatreenne, seppur amareggiato per il tentativo di diffamazione subito, rilancia sorridendo nei primi minuti del suo spettacolo, venerdì scorso a San Francesco al Prato a Perugia, la città che lo ha ospitato dopo la “cacciata da Assisi”: “La vicenda ha avuto un effetto boomerang che ha generato un’attenzione folle al problema.” Allo spettacolo è stata regalata una visibilità che si sta traducendo in grande interesse di critica e di pubblico. In tutto ciò il vero problema sembra riguardare altro. C’è una verità scomoda da celare e “un potere infastidito dall’ironia. Questo un sicuro segnale del suo declino”.
Lo spettacolo-lezione che mette in dubbio la paternità giottesca degli affreschi assisani a lui storicamente attribuiti offre vari spunti. Si parla di metodi di attribuzione delle opere pittoriche, di incongruenze nelle datazioni, di canoni e tecniche di stesura del colore. Delle tesi dell’esperto di restauro Bruno Zanardi secondo le quali l’autore della maggior parte degli affreschi della navata nella Basilica Superiore di San Francesco sarebbe Roberto Cavallini e non Giotto. Ma uno spettacolo, seppur incentrato su una “lezione” di storia dell’arte, può trasportare una sua verità artistica, indipendente da tempi e legittimità delle fonti.
In “Giotto o non Giotto”, al di sopra della “liceità” del dubbio, la questione esistenziale si riversa sulla figura stessa del santo. “Francesco si definiva ‘giullare al servizio di Dio’”. E’ nella rappresentazione di un celebre affresco, la settima scena delle ventotto del ciclo delle Storie di San Francesco della Basilica superiore di Assisi, tratto dalla Legenda Maior di San Bonaventura, che Dario Fo conferma la sua immutata adesione a quella concezione della figura del giullare, quale attore e affabulatore consapevolmente opposto al potere. L’incontro tra Francesco ed Innocenzo III, narrato attingendo ad un dialetto “umbro-marchigiano con punte di napoletano” segna uno dei momenti più alti dello spettacolo.
L’iniziale diniego papale, alle ingenue tesi del giovane frate, fondate su un universalismo dei diritti di stampo evangelico, si trasforma in consenso attraverso l’uso strategico della provocazione. “La predica ai porci” suggerita con sprezzo viene portata a termine con entusiastica coerenza dal frate cencioso che estasiato si presenta a cospetto del sommo pontefice, con il corpo e le vesti imbrattate di sterco suino. E l’atto giullaresco neutralizza la censura.
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