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Anubi D'Avossa Lussurgiu Paolo Leon (professore d'economia pubblica presso l'Università Roma 3, ndr), dal decreto anti-crisi appena passato al voto di fiducia si può dedurre e sintetizzare una qualche idea-cardine del governo Berlusconi in materia di politica economica e in termini di approccio, per l'appunto, alla crisi? In realtà si tratta d'una serie di provvedimenti piuttosto staccati gli uni dagli altri: alcuni richiesti dalle circostanze come l'intervento sulle banche, altri più fondamentali come lo scudo fiscale le cui norme però nulla hanno a che vedere con la ricerca d'una ripresa ma rappresentano solo un modo per garantire fondi alla finanza pubblica con un condono. D'altra parte, ambedue questi ambiti hanno un tratto comune: si presentano come politiche dell'offerta e non della domanda. Invece, in questo momento e con tutta evidenza, la crisi è di domanda: non "tirano" i consumi né gli investimenti, né le esportazioni. E non tira nemmeno la spesa pubblica visto che la pressione fiscale, dati alla mano, invece di diminuire aumenta. Si capisce perché; con la contrazione del Pil inevitabilmente il gettito diminuisce. Ma a fronte di tutto questo, quello del governo è in poche parole un decreto finanziario e non economico: che non avrà praticamente alcuna influenza sulla crisi. C'è stata anche una rottura, quella dell'impegno preso in commissione dove si pensava ad maggiore riduzione del costo delle banche per i correntisti, mentre col maxiemendamento si è voluto favorire maggiormente gli istituti. Ecco: se è così, come può il governo pensare d'affrontare la durata della crisi, che intanto da qui alla fine dell'anno secondo tutte le previsioni farà sentire il suo maggior peso? Il governo non ha alcun interesse né una particolare dedizione nella lotta alla crisi. Direi che non gl'importa nulla, se riesce con una politica di comunicazione e d'eventi ad oscurare nell'opinione pubblica la realtà della crisi. Può pensare di farlo anche perché la crisi non colpisce tutti gli italiani né tutte le categorie allo stesso modo. Così, c'è sempre qualcuno che sta peggio di te. Ed è facile accusare chi sta peggio di non essere ottimista. La verità è molto semplice: il governo aspetta. Cosa, però? Che si muova qualche altro Paese, in modo da potervisi mettere alle calcagna. Al di là del governo, a proposito del decreto anti-crisi ci sono altri interessi coinvolti, ovviamente quelli economici, del "mercato": anche a loro della crisi non importa nulla? Ci sono due questioni importanti. Una è quella della cultura dominante nel mondo economico: la crisi non ha effettivamente messo in dubbio gli elementi del sistema che pure l'hanno determinata. Ricordo che nel decalogo dell'Ocse e anche nel Global Standard il valore principale, che Berlusconi chiama sacro, è quello della proprietà privata. La cui peculiarità è appunto che è privata: non guarda cioè, costitutivamente, al complessivo bensì al particolare e quindi non scorge altra possibilità nei confronti d'una crisi se non quella di considerarla inevitabile o, viceversa, che si supererà con aiuti finanziari da parte dei governi. La Confindustria sa benissimo che la crisi è di domanda: ma anch'essa non ha alcuna fiducia che l'Italia possa darsi politiche economiche volte ad aumentare la domanda. Per esempio, un aumento dei salari: che in queste circostanze dovrebbe largamente superare la produttività. E la Confindustria teme una possibile politica sui redditi di questo tipo, perché ne vede solo l'aumento dei costi. Lo si vede ora sul rinnovo del contratto dei meccanici... Anche nel resto del mondo, in verità, la situazione non è facile. Da noi è particolarmente difficile perché metà del sindacato converge su quelle politiche. Il realismo è quello che uccide chi rappresenta i lavoratori in quel modo. Io ricordo sempre che uno dei primi atti di Roosvelt fu la creazione di istituzioni che legittimassero il sindacato in modo da poter evitare una caduta dei salari. Ma certo Tremonti non è Roosvelt. E però non è proprio questa perdurante conformazione "neoliberale degli schieramenti politici ad apparire preminente, in Italia, consentendo anche un declino del conflitto sociale organizzato? Certo, in pratica il sindacato non ha più una sponda politica. Perché viene a mancare la cultura della difesa del lavoro, persino una semplice identificazione dello squilibrio fra capitale e lavoro , per dirla nel modo più banale. Eppure, non è una situazione solo nostra... Pensa alle scelte recenti di potenze sindacali storiche come quella tedesca? Proprio a questo: il sindacato tedesco mostra una sudditanza al partito socialdemocratico tale che se si fa il confronto con la Merkel lei appare più progressista. Ma non è perché la socialdemocrazia è fuori tempo: è che lo è questa , visto che è del tutto simile ai conservatori e addirittura ai reazionari nel campo sociale. In queste condizioni, non solo nazionali, si può prevedere o no una ripresa di conflitto, al di là delle rappresentanze, nel prossimo autunno che sconterà l'impatto sociale della crisi? Penso di sì, perché il fatto di non riconoscere la crisi non implica che non ci sia. I licenziamenti, il sussidio quasi inesistente, lo squilibrio del fiscal drag , l'assenza del secondo lavoro, mettono in difficoltà estrema la generalità delle famiglie lavoratrici, non solo operaie. Cambia l'aria, quando la gente si stufa. Io penso che cambierà. E perciò tutti hanno paura di quest'autunno, perché al di là delle lotte sindacali quando si stufa la gente si mobilita e si ridisloca politicamente, bisogna vedere se verso destra o verso sinistra. Può benissimo andare ancor più a destra di ora. Ma potrebbe andare anche a sinistra, se la sinistra avesse qualche capacità di rappresentare non solo gli strati più deboli ma di incarnare lo scontento generale con un programma per uscire dalla crisi. In altri termini, rappresentare non solo il terzo "mancante" ma i due terzi che saranno scontenti. Condividi