Arezzo - Un colpo di pistola, sparato da un agente di PS, intervenuto a suo dire per sedare una presunta rissa tra una decina di tifosi della Lazio e della Juventus, ha ucciso un giovane di 28 anni, Gabriele Sandri. Il ministro degli Interni Giuliano Amato ha detto a poche ore dall’omicidio che si tratta “di un tragico errore”. Non voglio entrare nel merito del tragico avvenimento, in cui spero che la magistratura faccia piena luce e accerti le responsabilità del poliziotto accusato di aver esploso il colpo mortale. Tuttavia, credo chi ha più colpe non è il singolo poliziotto. Ritengo, invece, che ci siano delle responsabilità politiche, umani e sociali di chi ha prodotto leggi che portano alla licenza di uccidere; di una cultura che viene instillata negli agenti per cui è consentito sparare sapendo che si può uccidere, di un clima di intimidazione, intolleranza e di violenza. Le autorità dovrebbero garantire la pacifica convivenza ed invece contribuiscono a sconvolgerla (cosi come è accaduto a Genova durante il G8); si è prodotta negli anni una lunga legislazione di “emergenza” per cui si considera naturale sparare per le strade, per poi giustificare il tutto “come tragica fatalità”. Questa cultura, questa non cultura ha ucciso Gabriele Sandri: il colpo di pistola è stato solo lo strumento. Accertare la verità e dare giustizia ai familiari di Gabriele è il modo migliore per avviare un dialogo e un dibattito serio anche intorno alla problematica della violenza negli stadi. Altrimenti si rischia ci creare una frattura e un solco profondo tra le tifoserie e le forze dell’ordine e le istituzioni preposte. E gli incidenti che si sono verificati dopo la notizia della morte di Gabriele Sandri non sono altro che la punta di un iceberg di un problema a lungo considerato solo una mera questione di ordine pubblico. L’intero dibattito sugli stadi si è sviluppato, in questi anni, lungo la falsa riga dell’emergenza e si sono sprecati i richiami all’utopistica e disastrosa strategia della “tolleranza zero”. Un’ossessione securitaria che impedisce di leggere la storia recente della violenza negli stadi oltre gli stereotipi delle “tifoserie armate”, del “poliziotto impotente”, della “illegalità tollerata”. Così facendo rimane fuori dalla discussione un elemento chiave, la militarizzazione degli stadi avvenuta a partire dai primi anni ’90. Un dispiegamento massiccio di polizia e carabinieri dentro e fuori gli stadi per impedire e prevenire il contatto con le tifoserie avversarie, cercando di imitare il thacheriano pugno di ferro che aveva portato alla “normalizzazione”degli stadi inglesi. In Italia, questa cura militare basata più sul numero che sulla qualità si è rilevata inefficace e miope, ed è servita soltanto a aumentare i tafferugli fra tifosi e forze dell’ordine. Questi ultimi, poi non sono affatto esenti da responsabilità: la casistica offre numerosi esempi di violenze gratuite scatenate dagli agenti e di eccessi repressivi, sia dentro ma soprattutto fuori gli stadi. In questo clima un po’ cieco e marcato dell’autocensura, non si è parlato di prevenzione, di strategie di dialogo con i tifosi, di forme diverse di intervento da parte degli agenti, di criteri di formazione da rivedere. Sullo sfondo rimane la sensazione che parlare in termini critici, ma pur sempre costruttivi delle nostre forze dell’ordine, sia una sorte di tabù. Come se indicare gli errori, le storture, le pretese di impunità mostrata dalle forze dell’ordine negli ultimi anni fosse un attentato alla sicurezza dei cittadini e all’onore degli agenti e non il contrario. Le misure approvate e contenute nella legge Amato-Melandri, varata dopo i tragici incidenti a Catania che hanno portato alla morte dell’agente di polizia Raciti, sono in parti uguali ridicole e inefficaci; se fatte in buona fede dimostrano una miope informazione del problema, se fatta in cattiva fede dimostrano solo la volontà di far andare avanti il bussines che sta logorando lo sport più amato dagli italiani, con un’apparenza di disciplina da mostrare all’opinione pubblica ma a scapito del senso stesso del calcio. Ché se ne dica, gli ultras, il loro tifo sono uno degli elementi che rende una partita di calcio degna di chiamarsi con questo nome: le coreografie, i cori e gli striscioni tengono in vita un calcio morente, incapace di capire che l’infinita ricerca di soldi finirà per precipitarlo nel fallimento. Gli ultras nel bene e nel male, sono parte della nostra cultura, e se si vogliono arginare comportamenti teppistici o criminali bisogna prendere il problema alla radice, eliminando l’ignoranza, la povertà morale e il razzismo che affligge larga parte della nostra comunità. La repressione è sempre la risposta più facile e debole a un problema complesso: bisognerebbe investire tempo e sforzi sulla causa più che sull’effetto ultimo. E bisogna fare in fretta, perché a rimetterci come sempre sono i più deboli.

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