di Daniele Bovi
Si guarda intorno come se si sentisse fuoriposto sul main stage di Umbria Jazz e ci scherza su: “Siamo onorati di suonare qui ad Umbria Jazz…Jazz?!” fa Maceo Parker con la faccia di quello che si sente fuoriposto. “Noi – fa a quelli dell’Arena – suoniamo questa roba qui”. E attacca con un potentissimo funk che segnerà la prima ora del concerto di ieri sera. Leggendario sassofonista di James Brown (uno dei JB’s insomma), sulla cui musica ebbe un’influenza enorme, da anni Parker si è messo in proprio e porta sui palchi di mezzo mondo la tradizione del maestro. Brown è presente infatti per tutta la serata, anche con piccoli inserti come quelli tratti da “Papa’s got a brand new bag” o “It’s Too Funky In Here” con quel suo micidiale coretto. Energia allo stato puro. Maceo Parker e la sua band sono una vera e propria funking machine. “A volte – fa Parker mimando un amplesso – penso di essere Marvin Gaye”. Musica sexy, sporca, sciolta da ogni inibizione, dal sapore meravigliosamente luciferino. Roba per peccatori e per gente carica di ormoni, altrimenti “it’s not funk”.
A redimere le anime ci penserà poi, dopo un complicato cambio palco di mezz’ora, il “Vescovo del soul”, alias Solomon Burke. Ventuno figli, cresciuto come reverendo a Filadelfia con uno spettacolino di gospel per una piccola radio e una innata capacità di essere l’imprenditore di sé stesso, lo spettacolo di ieri sera non ha aggiunto niente ma ha confermato solamente le capacità da showman di Burke. Il suo, infatti, è uno spettacolo totale. Il Re del Rock&Soul è lui e quindi non possono mancare il vestito regale, il trono dorato ricoperto di velluto rosso, ancelle pronte a cantare e all’occorrenza asciugargli il sudore o allentargli il nodo della cravatta e doni da elargire al popolo di pecorelle smarrite e adoranti. Su tutti, collanine sgargianti (niente ciondoli a forma di farfalla per carità, in fondo lui è sempre un reverendo) e due fasci di rose rosse. Uno spettacolo che è anche un rito: è il vescovo che officia la cerimonia del soul. La voce non lo tradisce per niente ed è ampia e potente a dispetto dei suoi quasi 70 anni. Un Burke che non si limita a cantare ma a cui piace, come al solito, lanciare dal palco messaggi di speranza. “Hope”, speranza, “non perdete mai la speranza” esorta il reverendo. “Never give up”, non arrendetevi mai. E’ questo misto di spiritualità non d’accatto ma profonda e sentita mista all’energia e ad una band sugli scudi che ha dato vita ad uno spettacolo gioioso e a tratti commovente. Rara, a seconda di chi scrive, è la capacità che ha quest’uomo di toccare le corde profonde dell’anima.
Il concerto si apre “That’s how i go to Memphis” (che apre anche l’ultimo album “Nashville”) e scivola via con pezzi di Ben King, Otis Redding, Wilson Pickett, oltre che con i suoi successi di sempre e con i brani scritti per lui da gente come Tom Waits o Van Morrison. Per pochissimi va speso come per lui l’appellativo di leggendario. A tutti gli infedeli che ieri sera non hanno assistito al rito, il reverendo Burke offre una seconda possibilità di redenzione il 28 agosto in piazza del Popolo a Narni per l’undicesima edizione del Black Festival.
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