Il Lecco si è guadagnato la B sul campo, ma giocare a 240 km è assurdo
di Elio Clero Bertoldi
PERUGIA - Per nobiltà di memorie letterarie (legate ai "Promessi Sposi" di Alessandro Manzoni), storiche (fu una delle poche realtà lombarde a schierarsi a fianco del Barbarossa) e, sia pure più recenti, calcistiche confesso di schierarmi, a prescindere, dalla parte del Lecco: ha meritato la vittoria e si è guadagnato sul campo il diritto di disputare il campionato di serie B.
Tuttavia non posso negare che le argomentazioni di chi enuclea rilievi profondi nei comportamenti formali della società del presidente Paolo Di Nunno, abbiano un loro peso specifico ed una loro motivazione logica.
La contestazione rivolta al Lecco dagli organismi di controllo assume risvolti formali e non sostanziali (il ritardo di una e-mai)? È vero. Ma le regole vengono stilate per essere poi rispettate, altrimenti il vivere civile finirebbe a rotoli.
"Il campionato si é concluso in ritardo e il nostro club ha avuto a disposizione appena due giorni per la risposta, invece della settimana concessa per tradizione", così suona il ricorso della società lariana, con il massimo dirigente che minaccia di mollare tutto se la sua squadra non verrà ammessa.
Non racconta profacole l'appello presentato. Tuttavia che lo stadio di Lecco non risultasse idoneo alla cadetteria, i dirigenti non lo avranno scoperto a 48 ore dalla scadenza dell'atto, anzi conoscendo da tempo quella criticità, nota all'universo mondo, si sarebbero dovuti muovere ben prima.
"Ci sono le montagne (tra cui sullo sfondo il famoso profilo del Resegone, citato nelle prime righe del romanzo manzoniano, nda) e siamo impossibilitati dalla natura ad allargare lo stadio...", spiegano i lecchesi.
Tutto giusto, per carità. Non appare, tuttavia, come anomalo, anormale, nemico della passione calcistica, che il Lecco, per disputare il campionato debba spostarsi non di 20-30 chilometri e neppure di 100, ma addirittura di 240 km di distanza, e cioè a Padova, in Veneto?
Risponde all'amore per l'arte pallonara, per i colori della propria città, che per ogni turno interno, giocatori e tifosi si debbano sobbarcare quasi tre ore di viaggio (se si prende l'auto) per la partita?
Questo aspetto, forse ancora più dei rilievi formali riguardanti la scadenza della e-mail, dovrebbe convincere dell'assurdità di un torneo che il Lecco dovrebbe affrontare per tutte le 38 giornate sempre lontano dal proprio ambiente, dai propri fan, dai propri comignoli. Dove andrebbero a finire l'identità, le radici dell'essere lariano?
Ipotizziamo, per assurdo, che il Lecco dominasse la B e venisse promosso in A: pure in questo caso - non avendo la possibilità concreta, essendo le montagne una tara ineliminabile, di costruire uno stadio nella propria provincia - si ricorrerebbe al gioco di prestigio di uno stadio lontano tre ore? Suvvia, il globo intero riderebbe alle spalle del calcio italiano, che già sta male, e da molto tempo, di per sé.
I signori del pallone, riflettano: se non si vantano strutture idonee, quale senso attribuire ad una ammissione ad un campionato nelle massime categorie? Alla razionalità di ciascuno, la risposta.

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