Carcere per i giornalisti, il Parlamento in un anno ha deciso di non decidere
Il 22 giugno del 2020 la corte Costituzionale (presieduta a quel tempo dall'attuale guardasigilli Marta Cartabia) aveva dato 12 mesi di tempo al Parlamento per modificare le norme che prevedono il carcere per i giornalisti. Dodici mesi dopo, però, la Consulta si riunirà nuovamente senza che il Parlamento abbia fatto nulla: nell’inattività del legislatore si procede verso una scontata sentenza d'illegittimità costituzionale.
Un intero anni non è bastato a il Parlamento per fare “il suo lavoro”: legiferare. Toccherà, pertanto, alla Consulta decidere sulla questione: nell’udienza pubblica di domani, 22 giugno, ci sarà la scontata sentenza d’illegittimità costituzionale per l’articolo 13 della legge sulla Stampa del 1948 (quello che prevede da uno a sei anni di carcere per la diffamazione) e per l’articolo 595 del codice penale (da uno a tre anni).
Nell’ordinanza firmata dal giudice Francesco Viganò un anno fa veniva affermato che le norme che prevedevano la detenzione per i giornalisti non potessero coesistere con la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo.
Ma 12 mesi dopo non è cambiato niente.
I parlamentari, ormai in uno stile consolidato, non mettono mano alle leggi incostituzionali, nonostante le indicazioni e il tempo concesso dalla Consulta.
Inoltre, un anno fa la Consulta aveva suggerito al legislatore come intervenire sulla vicenda, indicando che le pene detentive potevano al massimo riguardare i casi in cui l’offesa alla reputazione “implichi una istigazione alla violenza ovvero convogli messaggi d’odio”.
Il nuovo bilanciamento, osservava la Consulta, doveva “coniugare le esigenze di garanzia della libertà giornalistica” con le altrettanto “pressanti ragioni di tutela effettiva della reputazione individuale delle vittime di eventuali abusi di quella libertà da parte dei giornalisti”. Vittime, ragionavano i giudici, “che sono oggi esposte, dal canto loro, a rischi ancora maggiori che nel passato” per via degli “effetti di rapidissima e duratura amplificazione degli addebiti diffamatori determinata dai social networks e dai motori di ricerca in internet”. A parere della Corte Costituzionale, quindi, un così “delicato bilanciamento” spettava “primariamente” al Parlamento, ritenuto il soggetto più idoneo a “disegnare un equilibrato sistema di tutela dei diritti in gioco, che contempli non solo il ricorso – nei limiti della proporzionalità rispetto alla gravità oggettiva e soggettiva dell’illecito – a sanzioni penali non detentive nonché a rimedi civilistici e in generale riparatori adeguati (come in primis l’obbligo di rettifica)”, ma anche a “efficaci misure di carattere disciplinare, rispondendo allo stesso interesse degli ordini giornalistici pretendere, da parte dei propri membri, il rigoroso rispetto degli standard etici che ne garantiscono l’autorevolezza e il prestigio, quali essenziali attori del sistema democratico”.
La traccia per la nuova legge era tutta scritta nella sentenza della Consulta. I parlamentari però hanno deciso di non decidere...

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