Tenere famiglia.
di Franco Palazzi (*) - Jacobin Italia.
«Tengo famiglia». È forse il più emblematico dei motti conservatori, passibile di infinite declinazioni. Vorrei oppormi a questo regime oppressivo e ingiusto, ma ho famiglia. Occorre denunciare il grave episodio di corruzione, ma non posso pensarci io – a casa c’è una famiglia che mi aspetta. Detesto rimanere in silenzio mentre si compiono tali violenze, ma capitemi, ho una famiglia da mantenere.
Tenere famiglia non significa solo avere una famiglia, farne parte. Incorpora anche una dimensione normativa, di valore: tengo alla mia famiglia; tengo a cuore la mia famiglia; tengo la mia famiglia sempre al primo posto. La famiglia a cui si tiene è a sua volta il prodotto di norme ben precise, non si tratta di un tipo qualsiasi: è una famiglia eterosessuale, mononucleare, patriarcale. È implicitamente un uomo, un capo-famiglia a pronunciare la fatidica frase – il pane sulla tavola lo porta lui, se finisse in qualche guaio la moglie e i figli che lo aspettano a casa non saprebbero come andare avanti. Pazienza se si tratta di un modello di famiglia ormai sempre più minoritario, la forza retorica dell’espressione ne permette sempre nuove variazioni (il genitore single dovrà pensare al futuro dei propri figli, in famiglie con più fonti di reddito si dirà che oggi senza grandi entrate non si va da nessuna parte, e così via).
In modo solo apparentemente paradossale, una famiglia di cui non si fa solo parte, ma che si tiene, è anche una famiglia che si man-tiene a qualunque costo, compreso quello di danneggiarne i componenti: «Se mi lasci mi ammazzo», «Se te ne vai di casa uccido te e i bambini – siete tutto quello che man-tengo (per la gola, in pugno, sotto ricatto)». Sono sempre maschi eterosessuali a parlare. Non esiste misfatto abbastanza orribile o crimine troppo efferato da non poter venire commesso in nome di un «tengo famiglia».
Beppe Grillo tiene famiglia. Ha voluto farcelo sapere, delirando per novanta secondi buoni in un video nel quale dice delle cose vergognose sulla giovane donna che ha denunciato suo figlio e tre amici di lui per violenza sessuale. Grillo tiene così tanto alla famiglia da riprendersi con le vene pulsanti e il viso sfigurato dalla rabbia non per difendere l’onore di un figlio ingiustamente spedito in galera – no, lo ha fatto proprio per evitare che il processo a suo carico cominci. Ciro Grillo, infatti, non è stato ancora rinviato a giudizio.
A vederlo in quelle smorfie furenti, chi lo osservasse per la prima volta faticherebbe a riconoscere in lui un celebre comico. Eppure nel video Grillo è, inesorabilmente, un pagliaccio, un personaggio farsesco. Avesse avuto la minima vena tragica, avrebbe almeno finto di applicare a suo figlio lo stesso metro usato tante volte per i propri avversari politici: se è innocente, che vada a processo e ci dimostri di esserlo – chi non ha fatto niente, avrebbe detto in altre occasioni, non ha nulla da nascondere. In politica, i rivoluzionari hanno non di rado uno spessore tragico che lambisce il fanatismo: non esitano a mettere in gioco la loro vita a quella di chi hanno vicino pur di non mancare di fede alla propria causa. Dal canto suo Beppe Grillo è, nel profondo, un conservatore – e allora più della coerenza conta la difesa di certe prerogative, man-tenere la famiglia unita.
Una delle caratteristiche più peculiari di coloro che tengono famiglia è comportarsi come se fossero gli unici ad avercela, una famiglia. Grillo non ammette che abbia una famiglia anche la donna che sta attaccando sfruttando ogni oncia della propria visibilità, che una famiglia ce l’hanno pure le moltissime donne che hanno subito violenza e quelle che la subiranno anche perché il mondo è pieno di gente che, come lui, l’oppressione eteropatriarcale la rinfocola brandendone la mitologia dello stupro. Non dice, Grillo, che tanta di quella violenza eteropatriarcale avviene proprio all’interno delle famiglie – le famiglie si tengono insieme, ma non tengono conto di tutti i loro membri allo stesso modo. Qualche volta, le famiglie diventano persino prigioni, de-tengono. bell hooks lo scriveva in un saggio splendido intitolato Killing Rage: quando i tuoi orizzonti si ampliano, quando inizi a denunciare apertamente le ingiustizie che incontri, spesso la tua famiglia non ti riconosce più: bell è andata all’università e «si è montata la testa» – non accetta più che una donna nera come lei debba accontentarsi di essere una cittadina di serie B.
La cosa peggiore è che, anche nel momento della difficoltà, Beppe Grillo resta un attore di mestiere, un animale da palcoscenico. «Si comporta come si comporterebbe un padre» si sente dire. Esagera, sì, sfrutta il proprio potere per fini personali, ma in fondo bisogna comprenderlo – «Come padre, solidarizzo con Grillo» ha affermato il leader dei cerchiobottisti nazionali, Enrico Mentana. È il segno che Grillo potrebbe farcela, che forse il numero gli riuscirà anche stavolta: il leader politico milionario nei panni del piccolo borghese incattivito. Un’interpretazione magistrale della quale alcuni dei media più ottusi d’Europa (vale a dire quelli italiani) sono il miglior cast di supporto possibile: il video è subito embeddato sui loro siti, accompagnato da righe scarne e da una piccola lista di prese di posizione pro e contro. Nessuna linea editoriale, nessuna netta presa di distanze dal sessismo e dal victim-blaming. Anche i giornalisti, si sa, tengono famiglia.
A volte, però, a forza di tenere sempre i familiari nei propri pensieri, si commettono delle leggerezze. La stampa si lascia sfuggire un elemento che rivela più di quello che dovrebbe. Dei tre amici del figlio di Grillo, leggiamo, uno è figlio di un manager di una grossa impresa, un altro di un noto cardiologo – il terzo, si dice, è di estrazione sociale più umile. È figlio di nessuno – il che, a voler stare dentro gli asfittici cliché del patriarcato, significa che non è «figlio di papà», che suo padre non è qualcuno che si distingua per un capitale economico o sociale particolarmente elevato. Ecco qui che la farsa di Grillo inizia a incrinarsi: le famiglie non sono tutte uguali.
Non sono uguali innanzitutto perché la parentela è un fenomeno culturale, non naturale: sono finiti i tempi della vecchia antropologia per cui le strutture della parentela sarebbero trans-storiche e transculturali – per dirla con Marshall Sahlins, la parentela non è un fatto di sangue, ma di «mutualità dell’essere», di far parte del mondo dell’altra o dell’altro. Non è un caso, notava Judith Butler, che certi anacronismi sulla presunta immutabilità dei legami familiari ricompaiano quando si vuole negare lo statuto di famiglia a casi di «mutualità» in contrasto con lo status quo, come le famiglie non eterosessuali, quelle composte da persone senza legami di sangue fra loro, o da persone apertamente non monogame. Persino in quei casi, la struttura della famiglia «tradizionale» (cioè quella che incarna la norma in un dato momento) prova a retroagire sugli elementi più eterogenei delle «nuove famiglie» – cosa che faceva dire già all’ultimo Michel Foucault che più che venire ricompresi dentro gli stretti cordoni della «normalità» si trattava di sperimentare nuove possibilità relazionali che non avessero tutti i limiti delle precedenti.
Ancora più dirimente nel nostro caso è che il ruolo e il significato delle famiglie siano tutto fuorché indipendenti dalla condizione sociale di appartenenza. Come ha scritto Pierre Bordieu:
Una delle caratteristiche dei dominanti è di avere famiglie particolarmente estese e fortemente integrate, poiché sono uniti non solo da un’affinità di habitus, ma anche dalla solidarietà degli interessi, val a dire che sono uniti sia dal capitale che per il capitale – capitale economico naturalmente, ma anche capitale simbolico (il nome) e forse soprattutto capitale sociale (che sappiamo essere tanto la condizione quanto l’effetto di una gestione riuscita del capitale posseduto collettivamente dai componenti della famiglia).
Il capitalismo contemporaneo, dietro una tenue facciata di modernizzazione, si basa ancora moltissimo sulla disuguaglianza familiare. Pochi anni fa un ponderoso studio di Melinda Cooper ha dimostrato come l’ascesa del neoliberalismo negli Stati uniti sia stata resa possibile anche dalla sua alleanza con il neoconservatorismo: per entrambi è la famiglia, anziché lo stato, a dover fungere da principale fonte e garante del welfare, e va da sé che solo una piccola parte delle famiglie potrà permettersi di svolgere con successo tale compito. Si può inquadrare in questa cornice anche la tendenza, documentata da Elizabeth Currid-Halkett, per cui i super-ricchi tendono oggi a investire relativamente meno in consumi vistosi, privilegiando invece quelli che contribuiscono a rafforzarne lo status mantenendone inalterata la posizione di privilegio (come l’iscrizione della prole a scuole e università particolarmente prestigiose). Il binomio tra neoliberali e neoconservatori non è del resto estraneo neppure all’Italia.
Il (buon) nome di famiglia è un brand: certi cognomi servono da lasciapassare, mentre origini più umili vanno taciute quando non accuratamente nascoste – e con loro le ferite di classe di cui scriveva Mark Fisher, purtroppo trasmissibili anche quelle da una generazione all’altra. Lo sa bene Beppe Grillo, che si trova a dover difendere un marchio di particolare visibilità e valore nel momento in cui le sue quotazioni, si fa per dire, rischiano di scendere in picchiata. Il possibile processo a carico del figlio, quando anche non si concludesse con una condanna, rischierebbe di seguirlo ovunque per anni, diminuendo, lo ha spiegato bene Marco Imarisio, la sua agibilità di figura pubblica in un momento cruciale per la vita del partito che ha fondato. Ecco allora la scelta di una messa in scena patetica e potenzialmente controproducente, che però restava anche l’unica mossa a sua disposizione per porre le cose in chiaro, per sottolineare il potere mediatico che detiene e ribadire che d’ora in poi riterrà qualunque parola meno che innocentista per il figlio come un atto di guerra nei propri confronti.
La condizione di particolare potere e privilegio di Grillo fa dunque sì che per lui e la sua famiglia gli interessi in gioco siano particolarmente elevati – così elevati che la sola celebrazione del processo, anche a netto del suo esito, potrebbe rivelarsi pericolosa. E tuttavia nella sua eccezionalità la vicenda contiene una lezione politica importante, facendo strame della narrazione irenica per cui si potrebbe promuovere una politica radicale semplicemente facendo appello agli interessi particolari dei singoli e delle loro famiglie. Anche in una famiglia modesta, in un caso simile l’interesse immediato non potrebbe che spingere ad arroccarsi a difesa del proprio caro accusato, mentre i discorsi anche giusti sul fatto che nel lungo periodo l’eteropatriarcato non convenga neppure agli uomini se li porterebbe il vento.
Si ritorna così alla rabbia di cui scriveva hooks, quella per l’oppressione strutturale vissuta in prima persona che la rendeva irriconoscibile agli occhi dei suoi familiari. Quando si combatte contro forme strutturali di ingiustizia non c’è spazio per il perbenismo che non riesce ad accettare che vi sia molto di giusto (e persino di auspicabile) nella rabbia che desidera ardentemente che i propri oppressori stiano peggio. Non si può superare il patriarcato senza togliere agli uomini tutta una serie di privilegi dei quali godono grazie a esso. Se col tempo riusciranno a vedere che quei privilegi non erano davvero tali, meglio per loro.
La rabbia di Grillo, allora, tradisce già la consapevolezza di coloro che combattono una battaglia di corto respiro, di mera conservazione: chi tiene famiglia fatica a proiettare la sua identità oltre i ridotti confini di quella, vedendo al loro esterno al più gruppuscoli di famiglie in concorrenza gli uni con gli altri. Nulla a confronto di quel «grido altissimo e feroce» che Non Una di Meno continua a levare contro la violenza di genere e non solo. Anche il femminismo è, a ben vedere, l’espressione di una parentela (nella lotta, nella rabbia, nella solidarietà). Una parentela per scelta e non di nascita, imprevedibile e imprevista, da ricreare a mettere alla prova continuamente.
Formulare un giudizio politico significa, in ultima analisi, decidere in compagnia di chi si vuole stare, e su quali basi. In attesa di un altro tipo di giudizio nelle aule di tribunale, anch’esso necessario, quello nei confronti di Beppe Grillo non può che essere di totale contrarietà e conseguente presa di distanza. Non c’è famiglia biologica che tenga.
(*) Franco Palazzi è dottorando in filosofia all’Università di Essex e autore di Tempo presente. Per una filosofia politica dell’attualità (ombre corte, 2019). Ha scritto, tra gli altri, per Doppiozero, Effimera, Il Tascabile, Jacobin Italia, Le parole e le cose, OperaVivaMagazine e Public Seminar.

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