di Luigi Vinci
AM. “Diario” invernale
Lunedì 8 febbraio
L’ombra obbligata ma anche ambigua di Draghi sull’Italia ma pure sull’Unione Europea: che fare, a pandemia superata e a ripresa avanzata, del debito pubblico elevato accumulato dai vari paesi dell’Unione Europea?
L’Italia è particolarmente sovraesposta a forti ritorni liberisti in questa materia. Se ne sussurra in Germania, che cosa pensa Draghi?
Sinistra politica e organizzazioni sindacali sarebbe bene si occupassero da subito della questione: ne va della condizione tra 3-4 anni delle classi popolari così come della qualità ambientale della crescita economica
Le posizioni contraddittorie di Christine Lagarde in tema di gestione, a fine pandemia e a ripresa avanzata, del debito pubblico accumulato
1. Lagarde nel periodo pandemico che precede Draghi a capo del governo italiano
A metà maggio 2020, rispondendo a giornalisti (ne ho riferito a suo tempo nel mio “diario”), la Presidente della Banca Centrale Europea Christine Lagarde aveva affermato che, “riguardo al Recovery Fund, sono ipotizzati prestiti a scadenze anche lunghissime, almeno dell’ordine di un decennio, ma è chiaro che scadenze più lunghe aiuterebbero a spalmare di più nel tempo i costi della crisi” (cioè, a spalmare di più l’elevato indebitamento pubblico). “La BCE, per quanto la riguarda”, aggiungeva Lagarde, “compra titoli la cui maturità è molto lunga, fino a trent’anni”.
A metà novembre 2020, sempre rispondendo a giornalisti (anche di questo ho già riferito), Christine Lagarde aveva affermato la necessità di rendere permanente il Recovery Fund: e a ciò il Presidente del Parlamento Europeo Davide Sassoli aveva positivamente reagito, dichiarando che la posizione di Lagarde aveva a sbocco naturale il passaggio del debito pubblico dei vari paesi UE a loro debito comune, dunque, il passaggio alla produzione di emissioni di debito comune UE e la concomitante creazione di un Tesoro comune. Il modello (unitario) del Recovery, aveva proseguito Sassoli, è da rendere definitivo, e usando, conseguentemente, bond europei (titoli emessi da stati) sarebbe stato possibile impegnare anche la BCE nel finanziamento della transizione ecologica.
Lagarde però reagirà: la posizione di Sassoli non è “legittima”, affermò, cancellare il grosso e crescente debito che, tramite emissione di bond da parte dei paesi membri UE, si era formato nel corso della crisi violerebbe i Trattati UE. E violazione dei Trattati parimenti sarebbe la trasformazione della BCE in “vera banca centrale” (testuale di Lagarde), in analogia, per esempio, alla Fed statunitense (alla BCE è vietato dai Trattati il finanziamento diretto delle economie dei paesi UE).
Per riuscire a fare questo, prosegue però, in certo senso contraddicendosi, Lagarde, sarebbe necessaria una “forza politica europea” che al momento manca, né di cui si vede la nascita, chi “comanda” nell’UE è la Germania, a suo seguito c’è la Francia, stop. Tra i danni di ciò, sottolinea Lagarde, un equilibrio politico complessivo UE debole e instabile. Che fare, allora. Ella propone la seguente ipotesi “minima”: la consegna alla Commissione Europea (su decisione del Consiglio dei Capi di Stato e di Governo e del Parlamento Europeo) di un’emissione largamente generalizzata di suoi propri bond (cioè, di una loro emissione non eccezionale, non parziale, non a termine, come invece è con il Recovery Fund). La Commissione potrebbe così direttamente disporre dei mezzi finanziari da investire nel complesso dell’economia e nella società. Il tutto sarebbe sostenuto dalla BCE, che già produce denaro “dal nulla”, quindi, “per definizione non può fallire” (testuali di Lagarde). In breve, in questo modo la BCE opererebbe analogamente a Fed e a ogni altra banca centrale del pianeta che si rispetti. In breve, il debito pubblico dei paesi UE verrebbe in parte sostanziale trasferito alla UE come tale (cioè spostato sulla Commissione).
Impedisce tutto ciò, conclude Lagarde, un “dogma” insensato, quello liberista, monetarista, sistematicamente deflativo, tendenzialmente recessivo, ossessionato dalla stabilità dei prezzi in quanto ossessionato dall’idea fasulla, ideologica, che la creazione ampia di denaro obbligatoriamente porti a inflazione incontrollata, anziché, per esempio, primariamente operare all’aumento dell’occupazione, al benessere sociale, al diritto di ciascuno a un reddito di base.
Parimenti, la BCE sarà sempre in grado di difendere la stabilità dei prezzi, ergo, di evitare processi inflativi, stringendo l’emissione di moneta.
2. Lagarde dinnanzi Draghi che andrà a capo del governo italiano
Dichiarazione alla stampa europea di Christine Lagarde, ieri 7 febbraio (duramente polemica nei confronti dell’appello alla Banca Centrale Europea firmato da 150 economisti europei le cui proposte sono abbuonare il debito pubblico dei paesi UE accumulatosi nel corso della pandemia oppure trasformarlo in debito perpetuo senza interessi, in cambio dell’impegno di quei paesi di investire analoga somma in campo ecologico e sociale): “la cancellazione del debito pubblico dei vari paesi UE posseduto dalla Banca Centrale Europea” (2.500 miliardi, pari quasi a un quarto degli 11.000 miliardi del debito pubblico complessivo di tali paesi) “è inconcepibile, sarebbe una violazione dei Trattati UE, essi rigorosamente impediscono il loro finanziamento monetario diretto, questa regola costituisce uno dei pilastri fondamentali dell’euro”.
E’ facile pensare che questa dichiarazione di Christine Lagarde sia a supporto, richiesto o meno, di un’intenzione del prossimo capo di governo Mario Draghi ad avere mani assolutamente libere in tema di politica economica.
In verità, nota la Repubblica, i Trattati UE non proibiscono esplicitamente l’annullamento del debito sovrano di paesi membri UE: se così fosse, sarebbero illegali anche il “quantitative easing” (l’“allentamento, o alleggerimento, quantitativo”) e, in modo chiarissimo, quella parte del Recovery Fund che viene consegnato ai paesi membri in forma di sussidi, non già di prestiti.
3. Un po’ di storia del quantitative easing
In origine (giugno 1998) la Banca Centrale Europea, al fine di perseguire il suo primario obiettivo statutario (stabilità dei prezzi e tasso di inflazione non superiore al 2% annuo), decise di non ricorrere a operazioni di quantitative easing, limitandosi ad acquisti minimi di attività finanziarie (soprattutto “bond”, cioè titoli “sovrani”, emessi dallo stato), sostenuti attraverso aste di liquidità e non attraverso emissione di moneta. Ma poi, a fine 2011, poi a febbraio 2012, anche la BCE comincerà a effettuare piani di rifinanziamento a lungo termine (cosiddette LTRO: long term refinancing operation) riguardanti la zona euro e aperte alle banche commerciali, per un totale di circa 1.000 miliardi di euro. A differenza, però, di un quantitative easing “vero e proprio” cioè di tipo britannico o statunitense, le operazioni LTRO ebbero una scadenza al massimo di tre anni, e questo in ragione del fatto che le operazioni di rifinanziamento tramite banche comportano sia la restituzione dei prestiti che la (conseguente) diminuzione delle dimensioni di bilancio della BCE. Nel corso del 2012, poi, la BCE raggiunse la massima espansione del suo attivo, mai avuta nella sua storia: 3.000 miliardi di euro. L’intento era di sollevare l’economia UE, colpita pesantemente dalla crisi del 2007-2008, dalla stagnazione, le Borse erano a rischio di crollo, ecc. Tuttavia l’effetto fu positivo soltanto sui mercati finanziari.
Dato il persistere della stagnazione, e dato, in aggiunta, il rischio di deflazione, nel corso del 2014 la BCE valuterà in modo sempre più significativo la possibilità di iniettare liquidità “netta”, quattrini, anziché “sterilizzata”, nel circuito economico europeo. Questo avvenne dapprima nel giugno del 2014, tramite un altro LTRO, stavolta “vero”, cioè in forma di finanziamento bancario a lungo termine finalizzato al supporto creditizio di imprese non finanziarie cioè appartenenti all’“economia reale” alias produttive: i cui risultati però, ancora, saranno minori rispetto alle attese. Sicché, visti anche il persistere di una stretta creditizia e l’esaurimento delle politiche monetarie convenzionali (abbassamento dei tassi di interesse verso lo zero, tasso di interesse negativo per i depositi stessi della BCE), sarà considerata in BCE con sempre più consenso la decisione di un “vero” quantitative easing nella zona euro. E il 22 gennaio del 2015 il Governatore della BCE Mario Draghi annuncerà al World Economic Forum che la BCE avrebbe acquistato titoli di debito pubblici e privati a partire da marzo 2015 almeno fino a settembre 2016 al ritmo di 60 miliardi di euro al mese, e comunque, se del caso, fino a quando il tasso di inflazione si fosse avvicinato al 2%.
La BCE (fase uno del programma quantitative easing) comprerà sul mercato secondario (cioè, non comprerà direttamente) titoli emessi dai governi della zona euro o dalle istituzioni UE. Tali titoli saranno acquistati in proporzione alle loro quote di capitale sociale nella BCE, allocheranno il 92% dei rischi loro connessi sugli istituti bancari nazionali (rischi però all’80% considerando anche gli acquisti dei titoli di debito pubblico di istituzioni UE). Il 4 dicembre 2015 (fase due del programma quantitative easing) il Board della BCE (il suo “Comitato esecutivo decisionale”, formato da Governatore, Vicegovernatore, 4 altri membri eletti a maggioranza qualificata dal complesso dei banchieri centrali della zona euro) deciderà un prolungamento degli stimoli monetari fino a marzo 2017 a parità di “potenza” dello stimolo (60 miliardi di euro per mese, come già riferito), tramite acquisti estesi anche a titoli emessi da enti locali. Inoltre, il tasso dei depositi bancari presso la BCE, già negativo, sarà portato dal –2% a –3%.
Il 10 marzo del 2016 la BCE deciderà a maggioranza del Board (ci fu un voto contrario, quello del Governatore della Bundesbank tedesca) di portare da 60 a 80 miliardi di euro l’importo mensile di acquisto del programma quantitative easing, già a partire da aprile; di estendere l’acquisto a titoli non governativi, emessi da società private non bancarie, aventi rating (livelli creditizi) superiori a BBB-; di mantenere allo 0% il tasso di interesse di riferimento; di abbassare il tasso sui depositi dal –0,3% al –0,4% (decisioni queste senza storia pregressa nella BCE, e con effetti di svalutazione del cambio euro-dollaro, dunque, con effetti di competitività superiore dell’economia UE rispetto a quella USA); di far salire, a giugno 2016, al 7% il limite, in vari tipi di impieghi, ai prestiti della BCE alle banche. Ci saranno pure ulteriori liquidità per le banche, qualora investissero almeno il 2,5% dei loro impieghi in imprese, ecc.
Il 25 ottobre 2017 la BCE prolungherà il quantitative easing fino al settembre del 2018, abassandolo tuttavia a partire da gennaio a 30 euro mensili.
1l 14 giugno 2018 la BCE estenderà il quantitative easing fino a dicembre. Nei mesi da ottobre a dicembre esso calerà a 15 miliardi al mese. Il 31 dicembre il quantitative easing verrà concluso.
Cancellare il debito pubblico non è un’eresia
Alessandro Volpi, docente di storia contemporanea all’Università di Pisa
“Partiamo dai numeri, forniti dal Fondo Monetario Internazionale. Il 2020 segnerà per la prima volta il sorpasso del debito pubblico, a livello mondiale, nei confronti del Prodotto Interno Lordo, portando il loro rapporto al 101,5%. La pandemia in tal senso è stata decisiva. Nel 2019, infatti, erano 19 i paesi che avevano un rapporto debito-PIL superiore al 100%, ora sono 30, il debito pubblico dei membri del G7 è lievitato dal 118% al 141% e nella morigerata Area Euro è salito dall’84% al 101%. Di fronte a dati di questo genere sarebbe davvero complesso immaginare un brusco ritorno a politiche di austerità, o anche semplicemente pensare a una significativa riduzione di tale ingentissima massa debitoria pubblica, anche perché alle difficili condizioni degli stati si aggiunge un ben più colossale debito privato, che in nove mesi è schizzato al 365% del PIL mondiale. Dunque, occorre concepire strade radicalmente diverse, senza avere paura di termini chiari, la cancellazione del debito pubblico legato alla crisi sanitaria, sociale ed economica in atto – perché non si tratta solo della spesa sanitaria – non può più essere considerata un’eresia, per varie ragioni oltre alla già ricordata, e decisiva, enormità del debito esistente.
La prima “eresia” è di natura storica: secondo le ricostruzioni di Christof Reinhardt e Carmen Trebesch (economisti del Fondo Monetario Internazionale), sono stati 48 gli episodi di cancellazione del debito nel corso del XX secolo, determinati da eventi straordinari, e praticamente tutti hanno favorito una importante ripresa economica e un miglioramento dei rating creditizi dei debitori. La seconda “eresia”, tutta opposta, riguarda, invece, i pericoli della cancellazione del debito, sottolineati da molti economisti mailstream (marginalisti, neoclassici, monetaristi, della Scuola di Chicago ecc.). I principali consistono nella ripresa brusca dell’inflazione, nella perdita di credibilità dei debitori che cancellano il debito, con conseguente difficile collocamento del loro debito successivo, nell’indebolimento della fiducia nei confronti delle monete con cui sono denominati i debiti cancellati. Ma si tratta di condizioni che, in questa fase di fortissima contrazione dei consumi, di mancanza di monete forti, di perdurante deflazione, sono davvero molto ipotetiche. Anzi, il vero pericolo consiste nel brutale impoverimento in corso per gran parte della popolazione mondiale, aggravato da una pessima distribuzione della ricchezza.
Nel caso dell’euro, poi, la sua forza è davvero fuori discussione ora, e non usarla sarebbe folle, così come è estranea alla zona euro qualsiasi tensione inflazionistica. Pensare che, nelle condizioni attuali e dei prossimi anni, i titoli garantiti dalla Banca Centrale Europea non trovino compratori a tassi bassissimi è del tutto privo di ragionevolezza. Non cancellare i debiti e pretendere la loro restituzione con ruvide politiche di austerità farebbe esplodere, dunque, senza motivazione reale una situazione già in enorme sofferenza. Spesso avversari della cancellazione fanno riferimento al fatto che essa sia avvenuta nell’ambito di “economie di guerra”, onde rimarcarne la natura straordinaria: ed è evidente, che le attuali condizioni straordinarie di distruzione della capacità di produzione di reddito dovute alla pandemia siano molto simili a quelle di un conflitto mondiale.
La terza ragione riguarda le soluzioni per operare una cancellazione che siano tutt’altro che impraticabili. In tal senso valgono varie ipotesi. La più semplice, per quanto riguarda la zona euro, che già dispone di una politica monetaria fatta di acquisti da parte della BCE di titoli di paesi UE a cui retrocede gli interessi, sarebbe quella di trasformare il debito necessario alla ripresa in titoli irredimibili (perpetui) a tasso zero. Si eviterebbe così di gravare in termini finanziari sulle future generazioni e si fornirebbero alla comunità dei cittadini europei i mezzi per affrontare la più grande trasformazione sociale degli ultimi decenni.
Peraltro già ora, se l’Unione Europea emettesse titoli perpetui e la BCE li comprasse facendo ricorso al quantitative easing, l’operazione sarebbe legittima ai sensi dei Trattati. Si tratta, quindi, di approdare a una nuova modalità del funzionamento dell’economia in senso finalmente sociale. Sarebbe anche un cambiamento di ordine culturale e politico capace come tale di diventare patrimonio condiviso”.
Che cosa fu quel Piano Marshall che consentì alle popolazioni europee a uscire dalle devastazioni della seconda guerra mondiale
Milena Gabanelli, Danilo Taino, sul Corriere della Sera
George Marshall fu il generale statunitense che inventò il Piano di Ricostruzione dell’Europa. Questo Piano canalizzò 13,3 miliardi di dollari dagli Stati Uniti verso 16 paesi europei, tra l’aprile del 1948 e il giugno del 1952. Guardando all’inflazione fino a oggi, si trattò di poco più di 140 miliardi di dollari attuali. Il Regno Unito ebbe 3,2 miliardi di dollari, la Francia 2,7, l’Italia 1,5, la Germania (occidentale), un anno dopo, 1,4, il resto andò agli altri paesi beneficiari. La Spagna fu esclusa in quanto a regime fascista. Nessun paese sotto controllo da parte dell’Unione Sovietica ottenne sussidi o prestiti, la “guerra fredda” era già in corso.
Giova aggiungere come di quei 13,3 miliardi di dollari 12 furono a fondo perduto, solo l’1,3 furono prestiti, al tasso del 2,5% e a scadenza tra i 30 e i 40 anni.
I 13,3 miliardi per l’Italia equivalsero al 9,2% del suo PIL.
I prestiti all’Italia, circa 150 milioni di dollari, andarono quasi tutti alla ricostruzione delle industrie del “triangolo” Piemonte, Lombardia, Liguria. Alla FIAT andò il 12,4%, all’IRI il 23,9%, alla Edison l’8,6%. Per lo più si trattò di denaro non collocato in salvataggi improbabili.
 

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