Non ditelo a Marx
di Paolo Brutti
Da queste elezioni americane ho imparato a detestare due cose, il trumpismo e gli americanisti. Sul primo non aggiungo parole, se non un po’ di pena per i blue-collar che seguitano a votare per un riccastro proprietario di case di gioco e campi di golf considerandolo uno di loro.
Sul secondo termine serve qualche precisazione. Americanismo, lo prendo da Gramsci, è quel modo di pensare per cui ciò che accade in America sia il futuro di tutti i paesi industrializzati. È diffuso anche a sinistra tra l’amoroso entusiasmo dei Veltroniani e l’odio grigio dei Cossuttiani.
Per tutti loro l’America è un faro, verde per gli uni e rosso per gli altri. Invece l’America è una nazione in decadenza, dominata da un capitalismo animale e primitivo che si auto divora in una fame finanziaria inesausta.
In quel frullatore i democratici stanno insieme solo perché il sistema elettorale presidenziale e maggioritario c’è li costringe. Se i voti dei grandi elettori venissero distribuiti stato per stato in proporzione ai risultati dei vari candidati tutto il sistema cambierebbe natura.
È la democrazia europea il faro di quella americana e Ocasio Cortez e Sanders lo sanno bene. Biden non è un unificatore ma un politico accorto che ha saputo mettere insieme una coalizione eterogenea con molte probabilità di disfarsi. Nello stato delle disuguaglianze la battaglia non si vince al centro, come mostra il voto ispanico. Si vince sui movimenti e prendendo coscienza che in America c’è una frattura di classe larga come il Grande Canyon e che l’ascendore sociale americano è rotto anche se Kamala Harrys non sembra crederlo.
Cosa possono fare i democratici americani? Salvare il capitalismo da se stesso, civilizzandolo e riformandolo come hanno cercato di fare gli europei. Bestemmio in chiesa (cioè sul Das Kapital) e sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo? Sono in buona compagnia. Anche il PCC ammette che i capitalisti privati e pubblici si approprino del plusvalore dei loro dipendenti. Forse al prossimo congresso scopriranno il sindacato.
Poi c’è il tema dei democratici americani e la guerra ma, come disse Fermat del suo celebre teorema, non ho spazio per mostrarlo in questo margine di foglio.Da queste elezioni americane ho imparato a detestare due cose, il trumpismo e gli americanisti. Sul primo non aggiungo parole, se non un po’ di pena per i blue-collar che seguitano a votare per un riccastro proprietario di case di gioco e campi di golf considerandolo uno di loro.
Sul secondo termine serve qualche precisazione. Americanismo, lo prendo da Gramsci, è quel modo di pensare per cui ciò che accade in America sia il futuro di tutti i paesi industrializzati. È diffuso anche a sinistra tra l’amoroso entusiasmo dei Veltroniani e l’odio grigio dei Cossuttiani.
Per tutti loro l’America è un faro, verde per gli uni e rosso per gli altri. Invece l’America è una nazione in decadenza, dominata da un capitalismo animale e primitivo che si auto divora in una fame finanziaria inesausta.
In quel frullatore i democratici stanno insieme solo perché il sistema elettorale presidenziale e maggioritario c’è li costringe. Se i voti dei grandi elettori venissero distribuiti stato per stato in proporzione ai risultati dei vari candidati tutto il sistema cambierebbe natura.
È la democrazia europea il faro di quella americana e Ocasio Cortez e Sanders lo sanno bene. Biden non è un unificatore ma un politico accorto che ha saputo mettere insieme una coalizione eterogenea con molte probabilità di disfarsi. Nello stato delle disuguaglianze la battaglia non si vince al centro, come mostra il voto ispanico. Si vince sui movimenti e prendendo coscienza che in America c’è una frattura di classe larga come il Grande Canyon e che l’ascendore sociale americano è rotto anche se Kamala Harrys non sembra crederlo.
Cosa possono fare i democratici americani? Salvare il capitalismo da se stesso, civilizzandolo e riformandolo come hanno cercato di fare gli europei. Bestemmio in chiesa (cioè sul Das Kapital) e sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo? Sono in buona compagnia. Anche il PCC ammette che i capitalisti privati e pubblici si approprino del plusvalore dei loro dipendenti. Forse al prossimo congresso scopriranno il sindacato.
Poi c’è il tema dei democratici americani e la guerra ma, come disse Fermat del suo celebre teorema, non ho spazio per mostrarlo in questo margine di foglio.Da queste elezioni americane ho imparato a detestare due cose, il trumpismo e gli americanisti. Sul primo non aggiungo parole, se non un po’ di pena per i blue-collar che seguitano a votare per un riccastro proprietario di case di gioco e campi di golf considerandolo uno di loro.
Sul secondo termine serve qualche precisazione. Americanismo, lo prendo da Gramsci, è quel modo di pensare per cui ciò che accade in America sia il futuro di tutti i paesi industrializzati. È diffuso anche a sinistra tra l’amoroso entusiasmo dei Veltroniani e l’odio grigio dei Cossuttiani.
Per tutti loro l’America è un faro, verde per gli uni e rosso per gli altri. Invece l’America è una nazione in decadenza, dominata da un capitalismo animale e primitivo che si auto divora in una fame finanziaria inesausta.
In quel frullatore i democratici stanno insieme solo perché il sistema elettorale presidenziale e maggioritario c’è li costringe. Se i voti dei grandi elettori venissero distribuiti stato per stato in proporzione ai risultati dei vari candidati tutto il sistema cambierebbe natura.
È la democrazia europea il faro di quella americana e Ocasio Cortez e Sanders lo sanno bene. Biden non è un unificatore ma un politico accorto che ha saputo mettere insieme una coalizione eterogenea con molte probabilità di disfarsi. Nello stato delle disuguaglianze la battaglia non si vince al centro, come mostra il voto ispanico. Si vince sui movimenti e prendendo coscienza che in America c’è una frattura di classe larga come il Grande Canyon e che l’ascendore sociale americano è rotto anche se Kamala Harrys non sembra crederlo.
Cosa possono fare i democratici americani? Salvare il capitalismo da se stesso, civilizzandolo e riformandolo come hanno cercato di fare gli europei. Bestemmio in chiesa (cioè sul Das Kapital) e sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo? Sono in buona compagnia. Anche il PCC ammette che i capitalisti privati e pubblici si approprino del plusvalore dei loro dipendenti. Forse al prossimo congresso scopriranno il sindacato.
Poi c’è il tema dei democratici americani e la guerra ma, come disse Fermat del suo celebre teorema, non ho spazio per mostrarlo in questo margine di foglio.Da queste elezioni americane ho imparato a detestare due cose, il trumpismo e gli americanisti. Sul primo non aggiungo parole, se non un po’ di pena per i blue-collar che seguitano a votare per un riccastro proprietario di case di gioco e campi di golf considerandolo uno di loro.
Sul secondo termine serve qualche precisazione. Americanismo, lo prendo da Gramsci, è quel modo di pensare per cui ciò che accade in America sia il futuro di tutti i paesi industrializzati. È diffuso anche a sinistra tra l’amoroso entusiasmo dei Veltroniani e l’odio grigio dei Cossuttiani.
Per tutti loro l’America è un faro, verde per gli uni e rosso per gli altri. Invece l’America è una nazione in decadenza, dominata da un capitalismo animale e primitivo che si auto divora in una fame finanziaria inesausta.
In quel frullatore i democratici stanno insieme solo perché il sistema elettorale presidenziale e maggioritario c’è li costringe. Se i voti dei grandi elettori venissero distribuiti stato per stato in proporzione ai risultati dei vari candidati tutto il sistema cambierebbe natura.
È la democrazia europea il faro di quella americana e Ocasio Cortez e Sanders lo sanno bene. Biden non è un unificatore ma un politico accorto che ha saputo mettere insieme una coalizione eterogenea con molte probabilità di disfarsi. Nello stato delle disuguaglianze la battaglia non si vince al centro, come mostra il voto ispanico. Si vince sui movimenti e prendendo coscienza che in America c’è una frattura di classe larga come il Grande Canyon e che l’ascendore sociale americano è rotto anche se Kamala Harrys non sembra crederlo.
Cosa possono fare i democratici americani? Salvare il capitalismo da se stesso, civilizzandolo e riformandolo come hanno cercato di fare gli europei. Bestemmio in chiesa (cioè sul Das Kapital) e sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo? Sono in buona compagnia. Anche il PCC ammette che i capitalisti privati e pubblici si approprino del plusvalore dei loro dipendenti. Forse al prossimo congresso scopriranno il sindacato.
Poi c’è il tema dei democratici americani e la guerra ma, come disse Fermat del suo celebre teorema, non ho spazio per mostrarlo in questo margine di foglio.

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