La dittatura nella storia della antica Roma in età repubblicana
di Maria Pellegrini.
Siamo di fronte a uno scenario pandemico con conseguenze disastrose, prendere decisioni per fermare i contagi è la priorità dei governi di ogni paese. Di fronte a decisioni rapide, a volte anche suscettibili di critiche ma dettate dall’emergenza, qualcuno ha voluto intravedere derive autoritari ed evocare un clima da “dittatura”.
La storia di tutti i paesi ha vissuto, per periodi più o meno lunghi, regimi dittatoriali e nel nostro paese abbiamo da pochi giorni festeggiato il 75esimo anniversario della Liberazione dal nazifascismo. Con tutto il carico di accezioni negative che la parola “dittatura” evoca, tali illazioni oggi sembrano fuorvianti e azzardate.
Può essere utile, a chi ama la storia millenaria di Roma, ricordare che si ricorreva alla “dittatura” fin dalla prima età repubblicana. La carica aveva una connotazione positiva, proprio per il suo carattere emergenziale. Non si trattava della scelta del male minore ma al contrario, di una sorta di estrema salvezza di fronte a una catastrofe, una carica temporanea di breve durata, sei mesi. Si istitutiva un governo d’emergenza, il “dictator”, nominato dal senato, assumeva il potere di entrambi i consoli, ma alla fine del periodo prestabilito le magistrature ordinarie riprendevano regolarmente le proprie funzioni.
Il capitolo XXXIV del Libro primo dei “Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio” di Niccolò Machiavelli, porta un significativo titolo: «L’autorità dittatoria fece bene e non danno alla Repubblica romana». E la voce “dittatura” del “Dizionario di Politica”, diretto da Norberto Bobbio e Nicola Matteucci, afferma: «Il significato moderno della parola è completamente diverso dall’istituto che il termine designava nella Roma repubblicana».
In seguito con le figure di Silla prima, e di Cesare poi, si snatura il carattere originario di questa carica che non è più dettata da necessità momentanea, diviene a tempo indeterminato, o addirittura perpetua, cioè a vita.
La tradizione fa risalire la comparsa della dittatura agli stessi inizi della repubblica. Primi dittatori sono Tito Larcio nominato quando è console nel 501 a.C., per guidare l’esercito contro la coalizione della città latine che intendono rimettere sul trono Tarquinio il Superbo, e nel 494 a. C Manio Valerio Massimo che conduce e vince la guerra contro i Sabini, antico popolo dell’Italia centrale. Il Senato gli decreta l’onore del trionfo.
La giovane repubblica deve presto affrontare una coalizione di popoli latini, una guerra contro i Volsci (a sud di Roma) e gli Equi (a est). Sono collegate a queste guerre le figure di due dittatori nominati dal Senato: Gneo Marcio Coriolano e Lucio Quinto Cincinnato, dai tratti leggendari. Il primo, che prende il soprannome dalla sua vittoria sui Volsci della città di Corioli, passato poi dalla parte dei nemici per contrasti con i tribuni, nel 488 a. C. guida i Volsci contro i Romani. Convinto dalle preghiere della madre e della moglie andate incontro a lui insieme ai due figlioletti, rimuove il campo e allontana le legioni dal territorio romano. Livio riporta l’appassionato discorso che la madre pronuncia per esortare il figlio a non marciare contro la sua stessa città.
Nel 458 a. C. Cincinnato, un illustre patrizio ridotto in povertà per la vita sregolata del figlio, mentre sta arando il suo campo riceve gli ambasciatori del Senato, che gli annunciano di essere nominato dittatore per guidare l’esercito contro gli Equi che hanno bloccato il console Minucio su un monte presso Tuscolo; subito egli obbedisce al richiamo della patria che chiede il suo aiuto, e in sole ventiquattro ore libera l’esercito romano e costringe gli Equi a passare sotto il giogo del vincitore. Rifiuta poi ogni onore e torna al suo campo.
Durante la III guerra contro Veio (406-396 a. C.) la città dopo un lungo assedio è conquistata dal dittatore Marco Furio Camillo. Si narra che, fatta scavare una galleria sotterranea, ordina ai soldati di introdursi nella città e distruggerla. Camillo si volge poi contro città etrusche che hanno parteggiato per Veio e riesce a venire a patto con Faleria (395 a. C.). Tornato a Roma celebra un trionfo, ma poi accusato di essersi appropriato di parte del bottino di Veio, si allontana in volontario esilio ad Ardea nel 391 a. C. Presto sarà richiamato in seguito all’invasione dei Galli.
Nel 390 a.C. sotto la guida del loro capo, passato alla storia col nome di Brenno, un’orda di Galli scende nella penisola, varca l’Appennino e si dirige alla volta di Roma. Il tentativo di fermare la loro avanzata fallisce. Giunta a Roma la notizia, la città è evacuata completamente, ad eccezione della rocca del Campidoglio dove un pugno di valorosi rimane a difesa della fortezza. Non mancano da parte di Livio descrizioni di curiosi episodi come quello delle provvidenziali oche che svegliano i soldati di guardia, affrontano l’assedio dei Galli e li respingono. Marco Furio Camillo, nominato dittatore, rifiuta di cedere al pagamento di mille libre d’oro richieste dai Galli per abbandonare definitivamente le ostilità, e mentre si sta pesando l’oro del ricatto sopraggiunge con ventimila uomini gridando: «Non con l’oro ma col ferro si salva la patria». Poi si getta sui nemici facendone strage. I Galli tentano altre due volte di invadere la città, ma soltanto nel 357 a. C. sono vinti definitivamente. La carriera politico-militare di Marco Furio Camillo, chiamato “secondo fondatore di Roma”, è comunque densa di altri straordinari avvenimenti.
Nella fase più drammatica della seconda guerra punica (218-202 a.C.), considerata da alcuni storici la prima guerra mondiale dell’antichità, risalta la figura di un altro dittatore Quinto Fabio Massimo, per ben cinque volte console, e nel 217 a. C. in seguito alla disastrosa sconfitta al lago Trasimeno, investito della carica di “dictator”. Per sei mesi cerca di evitare uno scontro in campo aperto con il nemico per preservare le forze militari senza gettarle allo sbaraglio, tattica che genera malcontento e gli procura il soprannome di “Cunctator” (il temporeggiatore). Allo scadere dei sei mesi la carica non gli è rinnovata, ma le sorti della guerra sono disastrose. Segue nel 216 a. C. la battaglia di Canne, la più grande disfatta subita da Roma.
In seguito questa forma di dittatura cui i Romani ricorrevano in situazioni di emergenza, cade in disuso.
Con l’avvicendarsi al potere di Mario e Silla, due valorosi comandanti entrati sulla scena politica e militare romana dopo la morte dei Gracchi, Roma vede sfociare tra i due una lunga guerra civile tra l’88 e 82 a.C. Dopo la morte di Mario, la carneficina messa in atto da Silla, è indiscriminata. Del defunto nemico sono distrutte tutte le statue e le immagini in città, uccisi i suoi parenti, centinaia di teste di mariani sfilano appese a pali davanti alla casa di Silla. Il terrore e il massacro è tale che i più coraggiosi tra i senatori e i cittadini romani chiedono al dittatore di compilare un elenco di nemici da abbattere, e poi tornare alla normalità. Nascono così le liste di proscrizione. Uccisioni legalizzate: elenchi terrificanti sono appesi nel Foro, e chi vi sia incluso perde ogni diritto pubblico e privato, può persino essere sgozzato in mezzo alla strada senza che il carnefice sia punito. Le proscrizioni durano sei mesi, fino al giugno dell’81: muoiono 90 senatori, 15 ex consoli, 2600 cavalieri, in totale circa 5000 persone. Lo stesso Silla e i suoi seguaci si arricchiscono comprando a poco prezzo i beni dei proscritti. Silla non si limita alla repressione contro i vivi, il cadavere del vecchio Mario è esumato dalla tomba e gettato nell’Aniene. Dopo la vendetta, impone il suo ordine. Formalmente, un ritorno al passato aristocratico, sostanzialmente una dittatura. Il Senato è allargato da 150 a 600 membri, indebolito e suddiviso in fazioni, il tribunato della plebe diviene una carica di nessun valore, dopo la quale nessun’altra carica può seguire. Qualsiasi forma di opposizione finisce. Con un plebiscito tutti i poteri, costituente, legislativo, esecutivo, giudiziario sono nelle mani del dittatore che celebra il trionfo per la vittoria su Mitridate (27 e 28 gennaio 81 a.C.) e si fa attribuire l’appellativo di “Felix” per sottolineare come la fortuna lo abbia sempre assistito.
Una sua statua equestre dorata è posta davanti ai rostri, con l’iscrizione “a Cornelio Silla Comandante Felice”. Con questo soprannome lo chiamavano gli adulatori per aver avuto successo sui suoi nemici.
Nel 79, con sollievo e costernazione di tutti, depone la dittatura consentendo libere elezioni consolari e si ritira a vita privata, forse presagendo la sua fine. Infatti dopo un anno si ammala e muore.
Nel 47 a. C., ultimo è stato Gaio Giulio Cesare a rivestire la carica di dittatore dopo la vittoria di Munda su gli ultimi ribelli pompeiani. Poiché il Senato è sempre stato la roccaforte della opposizione, Cesare nell’anno successivo porta da seicento a novecento il numero dei senatori, cooptando in esso, ufficiali del suo esercito, e persino centurioni, oltre a non pochi notabili non italici. Il risultato è che il Senato diviene uno strumento nelle mani del dittatore. Nel 44 a. C. è nominato dittatore a vita come Silla. È di fatto restaurata la monarchia: nelle mani di un uomo solo sono concentrati i supremi poteri -militare, giudiziario e amministrativo-, la supremazia religiosa, il diritto di emanare decreti obbligatori; il Senato è ridotto a organo di consiglio e non legislativo; sul Campidoglio una statua di Cesare è posta accanto a quella dei primi sette re, e una sua effigie appare anche nelle monete. Ma una congiura pone fine alla sua vita.
Immagine: Silla, Gipsoteca di Monaco.

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