da Liberazione del 21 maggio 2009
Chi si aspettava che la crisi avrebbe fatto cambiare idea ai pasdaran del liberismo deve ricredersi. Lunedì 18 la Repubblica ha offerto ai lettori una fotografia impietosa di come procede tra i nostri politici la riflessione sulle conseguenze sociali della crisi. Da un lato Pierluigi Bersani, il ministro delle "lenzuolate" nel governo Prodi; dall'altro, Maurizio Sacconi, l'architetto del nuovo welfare berlusconiano (deregolamentazione e sussidiarietà) e della controriforma del modello contrattuale. Un bel match . Soprattutto, un quadro increscioso di come siamo messi in mano a questa "classe dirigente".
I due erano intervistati sulla non-notizia del bassissimo livello delle retribuzioni dei lavoratori dipendenti italiani. Perché non-notizia? Perché innumerevoli fonti statistiche (dalla Banca d'Italia alla Banca dei Regolamenti Internazionali, dall'Eurispes all'Ocse) hanno chiarito da tempo come stanno le cose. Negli ultimi 25 anni i salari e gli stipendi dei lavoratori italiani sono rimasti pressoché fermi, mentre i redditi da capitale sono aumentati del 4,6% l'anno. Questo significa che operai e impiegati hanno ceduto a imprenditori e redditieri oltre 120 miliardi di euro. Anche se la cosiddetta stampa di informazione finge di menare scandalo per questo stato di cose (salvo dimenticarsene nel giro di un giorno o due), non è un mistero per nessuno che l'Italia è, con il Portogallo, ultima in Europa nei livelli salariali; che un lavoratore italiano guadagna in media il 32% meno di un lavoratore francese e il 43% meno di un lavoratore tedesco; e che la media delle retribuzioni italiane annue è inferiore di 4800 euro rispetto alla media dell'eurozona. In tutto questo, come sempre, le donne stanno peggio di tutti, considerato che guadagnano il 16% in meno degli uomini.
Ovviamente la crisi ha peggiorato le cose. Molti hanno perso il lavoro, molti sono in cassa integrazione, moltissimi sono costretti a subire condizioni salariali ancor meno favorevoli. L'accordo Fiat-Chrysler è il modello che i padroni hanno in mente. Licenziamenti, massima precarietà e minimi salari, nessun diritto. Alla luce di tutto questo, che cosa ci si sarebbe aspettato? O meglio: che cosa avrebbe immaginato Candide, accingendosi alla lettura dell'intervista all'onorevole Bersani, la mente economica del Pd, l'aspirante segretario post-diessino del maggior partito di opposizione? Candide si sarebbe aspettato che si parlasse di blocco dei licenziamenti e di aumento della spesa sociale; di un piano pubblico per il lavoro, della necessità di difendere i contratti collettivi nazionali e di lotta all'evasione fiscale (altro record nazionale). Si sarebbe aspettato, il povero Candide, qualche critica al neoliberismo, causa di questa estrema ingiustizia distributiva. E anche qualche considerazione autocritica, visto che del neoliberismo con tutti i suoi annessi (taglio di salari e pensioni compreso) il Bersani è sempre stato un acceso sostenitore, al pari di tutti i suoi compagni - pardon , amici di partito, persuasi che privatizzazioni e precarietà del lavoro siano sinonimi di modernità. Si fa un gran parlare di Europa in questi giorni, e in effetti guardare cosa succede al parlamento europeo è interessante. Il Pse ha votato sempre insieme a liberali e popolari (il gruppo del Pdl italiano) le peggiori schifezze neoliberiste, dalla Bolkestein all'innalzamento dell'età pensionabile delle donne, alla direttiva che abroga il limite massimo delle 65 ore settimanali.
E invece, povero Candide: che cosa ci vuole per aumentare i salari secondo Bersani? Meno tasse sui redditi da lavoro (cioè altri tagli al welfare ) e nuove liberalizzazioni, poiché - leggere per credere - «il potere d'acquisto dipende anche dalla concorrenza». Proprio così. Queste cose le dicevano ieri Blair e Clinton e prima di loro le avevano dette Thatcher e Reagan. Poi è venuta la crisi e i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Possibile che, come un disco rotto, si ripetano le stesse sciagurate ricette? E c'è di peggio. Alla domanda se i sindacati abbiano sbagliato ad assecondare le politiche di moderazione salariale, Bersani risponde che no, le cose sono andate bene così: si è trattato di «responsabilità nazionale» alla quale i sindacati sono stati «chiamati». Già. Peccato che la responsabilità sia sempre a senso unico. Peccato che la concertazione dovesse servire a difendere il potere d'acquisto. Peccato che dal 1995 ad oggi i salari italiani siano aumentati del 3% (meno dell'inflazione), mentre quelli inglesi o tedeschi del 18-20%.
In tutto questo la destra se la ride e - forte della maggioranza dei consensi operai - prospetta un modello sociale che rischia di apparire più attento alle esigenze dei lavoratori di quanto non siano le incrollabili certezze dei liberisti di sinistra. Sacconi (che finge di ignorare che la scarsa produttività dipende dall'arretratezza tecnologica) parla di condivisione, di cultura partecipativa, di cogestione. Loda Treu, cita Giugni, ricorda Biagi (quello che il suo amico Scajola definiva amichevolmente un «rompipalle»). Infine - facendo proprie le brillanti pensate del giuslavorista Pd Ichino - assicura di voler tradurre in salario «la parte positiva del rischio dell'impresa». Tradotto in soldoni: lavorate di più, chiedete meno tutele, e avrete qualche soldo in più. Certo, la contrattazione decentrata riguarda solo l'8% dei lavoratori e i nuovi calcoli per l'inflazione si tradurranno in altri tagli dei salari. Certo, per quelli che non perdono il lavoro sarà difficile fare più ore di quante già non facciano. Certo, ci sarà qualche migliaio di incidenti in più e qualche centinaio di morti in più. Ma chissà, forse per i fortunati la quarta settimana non sarà più un incubo.
Ad ogni modo, Sacconi almeno qualche promessa la fa, Bersani non si schioda dalla teologia liberista. Che dire, allora? Pare che alle europee il Pd prenderà un'altra legnata. I nostri vecchi sostenevano che dio acceca chi vuol perdere. Il guaio è che qui a perdere siamo tutti, a cominciare da chi deve campare la famiglia con 800 o mille euro al mese.
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