di Maria Rosaria Marella (Socialismo2000), candidata lista comunista alle europee collegia Italia Centrale Nel corso di “Annozero”, giovedì scorso, l’on. Ghedini ha accusato Emma Bonino di elitarismo, per il fatto di denunciare con sdegno il comportamento sessista continuamente ostentato dal presidente del Consiglio nel rivolgersi alle donne. Finalmente lo si è detto: il populismo di Berlusconi esige ora che alle donne si neghi pari dignità persino nel discorso comune, che le si consideri esclusivamente in termini sessuali e dunque le si nomini in quanto (e solo in quanto) assessore da palpare, finlandesi maggiorenni, belle gnocche, settore in menopausa, ecc. L’intervento di Ghedini è assolutamente chiaro sul punto. Chi protesta è elitaria, non è vicina alla ‘gente’, non comprende lo spirito (e lo humor) italico. E soprattutto turba la mirabile sintonia che l’imperatore ha istaurato col ‘suo’ popolo. Il patriarcato è in pieno spolvero, e nella sua versione più volgare e aggressiva. In molte non lo avevamo capito, o non completamente. L’overdose di politically correctness che si è consumata nell’ultimo decennio soprattutto in ambiente anglosassone l’abbiamo denunciata come donne, e da sinistra, nella sua deriva sessuofobica, ma forse abbiamo sbagliato qualcosa, ché mentre rivendicavamo libertà, responsabilità e autodeterminazione nelle relazioni sessuali si andava erodendo il senso dell’uguaglianza formale fra uomini e donne nelle relazioni sociali e si decretava la scomparsa del femminile dal discorso pubblico. Basti ricordare lo spazio marginale o addirittura nullo riservato al corpo femminile nel dibattito sulla procreazione assistita, prima e dopo l’entrata in vigore della legge 40. E poi ancora le polemiche sulla RU 486 e le mai sopite tentazioni antiabortiste, il cui senso ultimo è in fondo, pervicacemente, la cancellazione della soggettività femminile. In Europa non è così, e dobbiamo impegnarci perché non sia mai più così. In Europa l’attivismo femminista ha trovato spazio e voce per dettare l’agenda politica dell’Unione europea sui temi dell’occupazione e del lavoro; il punto di vista delle donne è diventato gender mainstreaming, cioè l’ottica privilegiata da cui guardare alle relazioni nel mercato. Le disuguaglianze fra i sessi sono individuate come costi da abbattere e i comportamenti discriminatori sono combattuti perché generano disfunzioni nel mercato. Il tempo della maternità e il lavoro di cura sono anch’essi assunti come momenti rilevanti nella regolazione del mercato del lavoro e così anche un pezzo della sfera riproduttiva diventa costitutiva della sfera della produzione, cioè detta i modi e i tempi del lavoro salariato. Tutto questo non appartiene a un altro mondo rispetto al discorso sessista nostrano, poiché la politica di parità fra i sessi dell’Unione europea è realizzata da direttive comunitarie che sono diritto vigente in Italia in virtù della loro recezione ad opera del parlamento italiano. C’è un nesso di significato che è saltato, oppure che non è stato mai stabilito, fra il discorso maschilista (oggi, ahimè) maggioritario e il paradigma paritario della legislazione di origine comunitaria, fra il piano culturale e il piano giuridico. Il problema è il gap fra identità e redistribuzione che troppo spesso la politica delle donne per prima ha contribuito a creare. L’attenzione al piano simbolico è stato funzionale all’affermazione di una soggettività femminile dai forti connotati identitari, ma per altro verso, ha indotto a trascurare gli effetti distributivi che le regole che disciplinano le relazioni sociali producono. In questa direzione è stato prevalentemente giocato quello che il femminismo americano ha chiamato il dilemma della differenza, cioè l’alternativa fra un’idea di uguaglianza che punti alla parità formale uomo-donna, trascurando e lasciando irrisolti quei profili culturali, economici e sociali che rendono le relazioni diseguali a prescindere dalla loro regolamentazione giuridica, e l’uguaglianza in senso sostanziale che, per puntare a rimuovere quegli ostacoli, riflette un’identità femminile debole e bisognosa di protezione giuridica. Il problema dell’uguaglianza è stato così interpretato soprattutto attraverso il suo speculare, cioè attraverso la lente della differenza. In Europa, il principio della parità e della non discriminazione di genere nelle relazioni di mercato ha proposto un’identità femminile emancipata, ma ciò non è valso ad indurre il cambiamento culturale atteso. Il cambiamento non si è realizzato, in particolare, laddove ciò che individuiamo come emancipazione - cioè ingresso formalmente alla pari nel mercato - non è stata accompagnata da un sistema di welfare forte che, facendosi carico dei costi che quell’emancipazione, produceva sul terreno del lavoro di cura e nell’evoluzione verso forme di famiglia non tradizionali, della famiglia fosse capace di scardinare la funzione di luogo di riproduzione dei ruoli di genere più radicati, che ancora oggi essa conserva quasi intatta in Italia. Questo perché le politiche europee improntate alla parità formale, dietro una forte connotazione identitaria, hanno rivelato contenuti mediocri, che non generano più libertà, ma solo una diversa collocazione delle donne nel mercato e poco altro. La precarizzazione del lavoro, la crisi economica e il declino del welfare state svelano ora un quadro di fragilità femminile nel mercato del lavoro, nella famiglia, e, complessivamente, nella società di cui la violenza sessuale è un esito drammatico, ma non il solo. Condividi