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Il modello non può essere che abruzzese di Bruno Bracalente (il manifesto 18 aprile 2009) Il primo insegnamento che si dovrebbe ricavare dalle esperienze del passato è che per una buona ricostruzione in Abruzzo c'è bisogno di un buon «modello abruzzese». Non uno già confezionato, come quello friulano, considerato come il modello positivo per antonomasia, replicabile sempre e ovunque; e neppure quello umbro-marchigiano, che pure è tra i (pochi) esempi positivi di gestione post-sismica del nostro paese. Perché è vero che ogni terremoto deve imparare dai precedenti, ma ogni terremoto è diverso da ogni altro e deve essere affrontato con sue specifiche modalità di gestione dell'emergenza e della ricostruzione, commisurate alle caratteristiche delle distruzioni prodotte, ai caratteri insediativi del territorio interessato e perfino a quelli sociali delle popolazioni colpite. Così è stato fatto in Umbria nel 1997, dove si è capito subito che il positivo modello friulano era proprio di un terremoto diverso, molto più devastante, che aveva colpito le attività produttive, da ricostruire prima delle abitazioni, e aveva suggerito, quindi, di affrontare la stessa emergenza spostando la popolazione dai luoghi del sisma. In Umbria i danni erano invece più contenuti e diffusi su un ampio territorio, e quelli alle strutture produttive minimi, la priorità è stata assegnata da subito, oltre che alla ricostruzione delle strutture pubbliche fondamentali, alla riparazione delle tante abitazioni inagibili ma meno danneggiate e ripristinabili in minor tempo. Il che ha consentito a 14 mila persone (su circa 22 mila senza casa) di ritornare nelle proprie abitazioni dopo due o tre anni dal sisma. Alcune buone regole accomunano però tutte le esperienze positive. La prima è il coinvolgimento delle popolazioni nelle scelte che le riguardano e il decentramento delle responsabilità alle istituzioni regionali e locali. Proprio perché la modalità di ricostruzione deve essere adattata al caso specifico, non può essere calata dall'alto ma deve essere definita localmente, con la partecipazione di tutti. Il modello umbro-marchigiano di ricostruzione è stato prima di tutto questo: un esempio di decentramento delle responsabilità alle due regioni e ai comuni; di vera e continua partecipazione delle popolazioni colpite nella definizione delle scelte, compresa la formazione della normativa nazionale che ha regolato la ricostruzione, discussa in diverse assemblee pubbliche nelle tendopoli; di ruolo di sostegno e garanzia dei rilevanti flussi finanziari da parte di un governo nazionale presente quanto non invadente. Il decentramento delle responsabilità si è peraltro esteso fino a coinvolgere direttamente i cittadini terremotati. Tutta la ricostruzione privata è stata fatta senza appalti e affidamenti pubblici, ma in via ordinaria, riconoscendo l'autonoma iniziativa delle persone e delle famiglie danneggiate dal terremoto (singole o riunite in consorzi obbligatori) nella scelta di tecnici e imprese a cui affidare la ricostruzione, nell'ambito di regole rigorose fissate dalle leggi nazionali e regionali. Questa è una componente essenziale del modello umbro di ricostruzione. Un modello che scegliendo la via ordinaria, puntando sulla responsabilità e l'iniziativa di migliaia di persone e famiglie, faceva pieno affidamento sulla società locale, stimolata a reagire, a riprendere anche in questo modo la vita economicamente attiva e la via dello sviluppo. Una via che dopo una catastrofe naturale è sempre irta di difficoltà e nelle realtà marginali, come le aree interne umbro-marchigiane (e quelle abruzzesi non sono molto diverse), può tramutarsi facilmente nella via del declino. Un modello fatto anche di regole rafforzate. A seguito di ogni emergenza, la prima e più pressante richiesta rivolta alle istituzioni è di fare presto e, per fare presto, di soprassedere alle regole ordinarie, di semplificare, allentare le briglie per far correre la ricostruzione più libera e veloce. In Umbria, invece che allentate, le regole sono state piuttosto rafforzate, ad esempio istituendo con legge regionale, nel 1998, quel «documento unico di regolarità contributiva» che da qualche anno è diventato legge dello stato. Un documento attestante la piena regolarità delle imprese, in assenza del quale quelle che operavano nelle zone terremotate non potevano essere pagate con i contributi pubblici della ricostruzione. Una barriera contro i rischi di infiltrazioni criminali e per la sicurezza nei cantieri, il che spiega in buona parte perché nella nostra ricostruzione in dieci anni non si è verificato nessun grave incidente sul lavoro. Regole rafforzate sul piano tecnico, della sicurezza degli edifici ricostruiti e per la qualità urbanistica e ambientale degli interventi. Un'importante novità della legge per la ricostruzione umbro-marchigiana è stata la commisurazione del contributo pubblico non al danno subito, ma al costo della ricostruzione con criteri antisismici, stabiliti operativamente da appositi Comitati tecnico-scientifici istituiti nelle due regioni. Così come la previsione di modalità di ricostruzione capaci di salvaguardare i caratteri degli insediamenti storici, spesso di piccolissime dimensioni, in via di degrado e di abbandono anche prima del sisma, in modo da fare della ricostruzione uno strumento non solo di ripristino ma anche di ripresa dello sviluppo economico e sociale su basi nuove. A quest'ultimo obiettivo ha corrisposto - insieme a veri e propri interventi di sostegno allo sviluppo economico dell'area - la scelta di un ampio ricorso ai programmi integrati di recupero in alternativa agli interventi su singoli edifici. Solo in Umbria sono stati realizzati quasi 200 interventi di ricostruzione di interi borghi o porzioni di centri storici tramite interventi integrati e coordinati su infrastrutture urbane, reti tecnologiche, abitazioni, edifici pubblici, beni culturali. Non sono tuttavia neppure mancati, nell'esperienza umbra, problemi e limiti propri del modello adottato. Limiti connessi al meccanismo «di mercato», che ha presentato anche in questo caso i suoi "fallimenti". Il più rilevante dei quali è stata la tendenza di una parte - contenuta, ma non trascurabile - dei tecnici progettisti a accumulare un numero di progetti di molto superiore alle proprie capacità di progettazione e di sorveglianza dei relativi lavori eseguiti dalle imprese. Con conseguenze negative talvolta sulla qualità e spesso sui tempi di una parte della ricostruzione. E a poco sono valsi gli elenchi di professionisti con il numero dei relativi incarichi pubblicato e costantemente aggiornato dal sistema regionale di monitoraggio della ricostruzione, come strumento di informazione e di scelta consapevole per le famiglie terremotate. Ci sono state anche difficoltà di carattere più generale, specie nel caso di Nocera Umbra, dove alla gravità dei danni subiti si sono aggiunte inadeguatezze proprie della struttura tecnica e amministrativa di un piccolo comune. Per un insieme di concause tutte concentrate in quel comune, Nocera è stata il punto in cui il modello decentrato e fondato sull'iniziativa dei privati ha mostrato i suoi principali limiti e avrebbe avuto più bisogno di deroghe. E anche questo è un insegnamento che l'esperienza umbra consegna a chi nei prossimi anni si dovrà misurare con la difficile ricostruzione abruzzese. Condividi