La candidatite
Non ha colpito milioni di italiani come il virus dell’influenza, ma del primo è un morbo anche più tignoso. E’ la candidatite, cioè l’aspirazione ad essere candidati e possibilmente eletti, che è divampata, senza validi rimedi o pregressi vaccini, in queste convulse settimane di formazione delle liste per le prossime elezioni politiche. Si manifesta sotto la forma di una frenesia incontrollabile che ha pervaso il mondo politico e, con rare eccezioni, i suoi protagonisti, peones o dirigenti di primo piano e, laddove un tempo prevalevano nobili ideali o scelte di interesse generale, costituisce il faro guida della loro azione. Induce nelle persone mutamenti morfologici e cambiamenti comportamentali e caratteriali che travolgono anche le menti più equilibrate e gli animi più tranquilli, pronti per conquistarsi una candidatura a trasformarsi in combattenti all’arma bianca, rivolta, principalmente verso i propri colleghi di partito. E’ all’origine di eccessi macroscopici perché induce in tutti l’illusione o la speranza di poter essere eletti anche in collegi, circoscrizioni o circostanze che rendono razionalmente la cosa altamente improbabile o impossibile; ma, si sa, i miracoli possono sempre accadere e poi l’importante è apparire, sentirsi protagonista, comunque “provarci”.
Ora, intendiamoci, l’ambizione in politica c’è sempre stata, anche ai tempi dei grandi partiti di massa e dello spirito di comunità e appartenenza su cui si fondavano. Ne è una componente, nella giusta misura, anche utile e imprescindibile. Ma non assumeva i caratteri parossistici di oggi. Perché? Molte cose sono cambiate e, probabilmente in peggio. I partiti, in realtà non esistono più, trasformatisi, con rare e piccole eccezioni, in confederazioni di comitati elettorali o di potentati per la gestione del potere. Spesso sorge anche il dubbio se esista ancora la politica. Il leaderismo e la personalizzazione hanno imposto le regole di un protagonismo nel quale l’individualità e la cerchia ristretta degli amici dei più potenti, i cosidetti “cerchi magici”, hanno soppresso e soppiantato il segno di un impegno comune, di una democrazia collegiale e il freno o, quantomeno, la disciplina delle ambizioni che ne derivava. In questo nuovo ambito di esasperata competizione è comune, quasi obbligata e alla fine legittima, la sopravvalutazione di se stessi, della propria personalità, di sentirsi, per qualità politica e capacità di attrarre voti, in una condizione superiore alla realtà o comunque non inferiore ad altri.
La candidatite è l’espressione più lampante dell’impossibilità, oggi, non solo di praticare, ma nemmeno di immaginare una politica svincolata e indipendente (autonoma) dalla gestione del potere. C’è stata un’epoca nella quale la politica era fatta, in prevalenza, per nobili ideali, condivisione di progetti politici, impegno e sacrificio disinteressati, perseguimento di un bene collettivo. Oggi, di tutto questo c’è rimasta ben poca traccia. Forse è il prodotto della caduta delle differenza ideali e strategiche tra le maggiori forze in campo. Quando l’asse del conflitto non è tra idee alternative, ma sulla gestione spicciola di interessi concreti di lobby o fazioni, tutto si immiserisce in una sorta di competizione commerciale a chi vende meglio il suo prodotto.
Il fatto nuovo e doloroso per chi ci milita, è che nei processi degenerativi è, sostanzialmente coinvolta anche la sinistra che ha fatto della sua “diversità”, espressione coniata in origine da Enrico Berlinguer, il suo cavallo di battaglia. Per essa non basta una politica giusta, ma ci vuole il ritorno ad un diverso modo di essere
Leonardo Caponi

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