Dal nostro inviato a L'Aquila Nicola Bossi
Duecento feretri, di cui una decina bianchi come la neve che si intravede dall'Aquila sulla catena montuosa del Gran Sasso. Dodici file di familiari straziati, che non hanno più figli, che non hanno più genitori, che non hanno più il proprio partner. Dietro a loro una folla immensa, racchiusa nell'ultima vera piazza rimasta al capoluogo dell'Abruzzo, quella della scuola della Guardia di finanza. A lato di tanto strazio, c'è la silenziosa rappresentanza di uomini delle istituzioni italiane. Salutata con calore la visita commossa del presidente forse più amato dagli italiani dopo Pertini, ovvero Carlo Azeglio Ciampi. Per lui passo incerto, occhi lucidi e voglia di abbracciarli tutti questi suoi figli italiani che non si dimenticano neanche quando scade il mandato da presidente.
L'appello accorato del Papa, che spinge l'intero Abruzzo ad attaccarsi all'unica certezza che il terremoto non può distruggere: la fede. Una fede non solo mistica, ma una fede legata ad una ricostruzione, ad un governo che sia, si spera, presente. Le parole dell'omelia non rendono quanto alcuni simboli che straziano il cuore. Ci sono piccole bare bianche messe sopra a bare grandi e pesanti. Sono mamme che reggono ancora in grembo i loro figli. Sono padri che ancora proteggono, come hanno fatto durante il sisma, il cadere delle macerie. Ci sono anziani soli, che non hanno nessuno che pianga per loro. Ci sono bare di famiglie intere, famiglie intere della comunità macedone che qui all'Aquila da vent'anni portano avanti la tradizione della pastorizia. Ci sono ancora bare che non hanno un nome. Ma su ognuna di esse c'è un fiore: un'orchidea bianca. Perché oggi più che mai non c'è divisione di classe, non c'è lavoro o professione più pregiata e non c'è “robba” che possa dividere gli uni dagli altri. Loro sono i martiri di questa giornata.
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