Hanno fatto il deserto e lo chiamano coalizione
di Roberto Bertoni
4 dicembre, un anno fa. E sembra ancora di sentirli i renziani che cianciano di accozzaglia del NO, lividi in viso e stretti dal terrore di perdere un referendum che a gennaio consideravano già vinto, e probabilmente lo era, e undici mesi dopo sembrava inesorabilmente perduto, e per fortuna era così.
4 dicembre, e la sensazione, per nulla attenuata, anzi rafforzata, di aver combattuto, contro tutto e tutti, dalla parte giusta, anche quando alcuni tardivi sostenitori del NO si ostinavano a votare quella pessima riforma in Parlamento nel tentativo di salvare un partito ormai irrimediabilmente mutato e, dunque, perduto.
Oggi sono i nostri compagni di viaggio e di battaglia, pertanto nessuna recriminazione e nessun rancore; tuttavia, è bene ristabilire la verità storica e usarla come monito, affinché certi errori non si ripetano.
Ha ragione da vendere, infatti, il povero Bersani quando asserisce che molta della nostra gente, in questi anni, si è recata nel bosco, rifugiandosi o nell'astensione o nel voto al M5S; fatto sta che il nostro dovrebbe anche interrogarsi se ciò sarebbe avvenuto lo stesso nel caso in cui lui e i dirigenti che lo hanno seguito nell'avventura di Articolo Uno prima e di Liberi e Uguali poi avessero deciso di combattere per davvero all'interno del PD.
Chi scrive, ad esempio, almeno all'inizio, non era affatto scissionista, in quanto non ho bisogno di qualche solone dell'ultim'ora per sapere che un centrosinistra devastato e frastagliato in mille rivoli è destinato non solo alla sconfitta ma, quel che è peggio, a consegnare il Paese in mani assai poco raccomandabili.
Chi scrive, almeno all'inizio, consigliava ai nostri amici dell'allora minoranza interna di opporsi alla riforma costituzionale, di non votare il Jobs Act e di rimanere all'interno del partito a costruire un'alternativa credibile e, soprattutto, evidente agli occhi della nostra gente, inorridita al cospetto delle politiche renziana.
Quando vidi determinati cedimenti, su argomenti su cui non ero disposto ad accettare alcuna disciplina di partito né a comprendere qualsivoglia richiamo all'unità, riguardando questioni cruciali per il futuro e lo sviluppo complessivo dell'Italia, assunsi la drammatica decisione di non rinnovare la tessera del PD, comprendendo alla perfezione lo stato d'animo di quella moltitudine di elettori emiliani che, probabilmente per la prima volta in vita sua, nel novembre del 2014 disertò le Regionali che hanno eletto Bonaccini.
Il disastro è cominciato allora: da una battaglia non condotta con la dovuta energia, dalle troppe fiducie votate ad un esecutivo che, oltre a star governando male, stava umiliando in continuazione il Parlamento, dal sostegno, sia pur di malavoglia, a provvedimenti come il già menzionato Jobs Act e la Buona scuola e dalla necessità, avvertita con forza da milioni di elettori di sinistra, di far capire ad ogni costo a Bersani e soci che così non fosse possibile andare avanti. Da qui, il drammatico voto delle Amministrative 2016, quando il M5S ha fatto cappotto in quasi tutti i ballottaggi e a Roma e Torino gran parte della nostra gente ha preferito le grillini Raggi e Appendino ai falchi renziani Giachetti e Fassino. In quel momento, Bersani e Speranza hanno recepito il massaggio. In settembre D'Alema ha fondato il comitato Scelgo NO e in autunno la minoranza è giunta alla decisione di seguirlo, al punto che il sottoscritto, dopo la vittoria del 4 dicembre, era più che disposto a rientrare per sostenere la sfida di Speranza medesimo come candidato alla segreteria del PD.
Troppo tardi, tutto inutile. Una parte di me sapeva benissimo che con Renzi non fosse possibile alcuna trattativa e che non ci fosse da aspettarsi da lui alcun atto di resipiscenza o, quanto meno, di buonsenso politico; l'altra parte, inguaribilmente romantica, si è illusa per qualche settimana che l'auspicio di Bersani di riprendersi il partito e renderlo nuovamente il cardine del centrosinistra potesse concretizzarsi. Niente da fare, e allora bando ai rancori, ai dissapori, alle divergenze e ai veri e propri litigi degli anni precedenti e avanti tutta nella ricostruzione di un partito non solo da votare alle elezioni ma nel quale poter tornare finalmente a riconoscersi.
Bersani e Speranza hanno ritrovato l'antica combattività, si sono sentite nuovamente parole d'ordine in grado di scaldare i cuori e dare linfa alle menti e si è giunti così, dopo un altro anno buttato via dietro al pessimo governo Gentiloni, alla nascita di Liberi e Uguali, la lista unica comprendente Articolo Uno, Sinistra Italiana, Possibile e una parte del mondo civico, e alla valida candidatura del presidente del Senato Pietro Grasso. Il resto è storia ignota e sta a noi costruirla, insieme, giorno dopo giorno.
Questa sommaria cronologia non serve ad attaccare questo o quel protagonista delle tragiche vicende della sinistra italiana né a far riecheggiare in sottofondo alcuna rivendicazione; serve ad aiutare i nostri lettori a comprendere per quale motivo abbia ragione Enrico Letta quando sostiene che le divisioni nel centrosinistra non sono solo di natura programmatica ma anche personali, basate su un astio e su un fastidio reciproco ormai impossibili da attenuare.
Intendiamoci: molti di noi non voterebbero PD nemmeno se Renzi e la Boschi fossero due simpaticoni; tuttavia, una cosa è sicura: abbiamo militato in quel partito, spesso in minoranza, e ne abbiamo accettato le scelte anche quando non ci convincevano del tutto fino a quando abbiamo avuto la sensazione di trovarci al cospetto di una comunità coesa e tenuta insieme da una visone del mondo se non proprio omogenea quanto meno compatibile. Quando è arrivato questo personaggio astorico, che ha fatto della sua non collocazione all'interno della famiglia e della tradizione del centrosinistra il proprio cavallo di battaglia (la famigerata "rottamazione"), abbiamo detto basta. Ciò che più di ogni altra cosa non ha capito Renzi, difatti, è che una comunità non può ritrovarsi unita solo all'interno delle urne, che non può essere un comitato elettorale a lui compiacente, che per vincere ed esistere, almeno a sinistra, serve altro: servono passione, coraggio ma anche, e soprattutto, condivisione per l'appunto, dai libri che si acquistano in libreria ai giornali che si leggono ai film che si vedono al cinema.
Per esistere non basta Twitter, non basta Facebook, non basta questa incultura della solitudine e del ghetto autoimposto, nel quale ciascuno rinchiude i propri rancori: per esistere occorre un confronto che vada dai destini dell'umanità ad un programma televisivo nel quale ci si rispecchia, di fronte al quale ci si ritrova, che magari si attende insieme per tutto il giorno o per tutta la settimana.
Per esistere c'è bisogno di sezioni, circoli culturali, luoghi fisici e morali, c'è bisogno di incontrarsi e anche di discutere animatamente: il web può essere d'aiuto ma non può sostituirsi a questo imprescindibile bisogno.
Renzi, invece, da perfetto figlio della generazione senza, post-ideologica e fiera di esserlo, cioè spesso amaramente nulla, ha costruito un M5S in miniatura, senza la radicalità, l'originalità, la freschezza e la credibilità dell'originale, dunque destinato ad andare incontro ad una miriade di sconfitte.
4 dicembre, un anno dopo. E ora che anche Pisapia e Alfano si sono sfilati, il primo per coerenza e dignità, il secondo per convenienza, a Renzi e ai suoi non rimane che la loro prosopopea, la loro narrazione epica di un'epopea di cartavelina, peraltro fondata su un risultato elettorale mai veramente conseguito, o comunque troppo abilmente gonfiato, e la boria con cui, di fronte a sondaggi devastanti, continuano a ripetere che da soli è meglio e che raggiungeranno vette impensabili, come se fossero ancora all'inizio dell'ascesa e non nel punto più ripido dell'ormai prossimo declino.
Se fosse ancora vivo lo storico Publio Cornelio Tacito, farebbe dire al suo Calgano, re dei Caledoni: "Vincono, dividono, stravolgono e, con falso nome, lo chiamano centrosinistra; infine, dove hanno fatto il deserto, quello chiamano coalizione".

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