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di Isabella Rossi Non solo per la sua inchiesta dal titolo “L’oro della camorra” edita dalla Bur e di recente uscita, ma per i 30 anni di cronaca nera sulle orme dei Casalesi che Rosaria Capacchione vive ora sotto scorta. Davanti ad una gremita Sala dei Notari ha raccontato oggi con semplicità della sua professione in una terra "senza futuro". Prima ancora che Saviano nascesse c’era già Rosaria, la cronista della camorra. L’unica ad osare in una terra dove il coraggio civile si paga a caro prezzo. La sua condanna a morte è stata annunciata dall’organizzazione criminale campana. Perché tanto accanimento nei suoi confronti? ha chiesto Bianca Berlinguer, nell’intervista svoltasi nel pomeriggio in un'affollatissima Sala dei Notari del Palazzo dei Priori di Perugia. “Una volta scrivevo soltanto io della camorra, si notava anche perché sono una donna. C’è da dire poi che io ho sempre fatto il bastian contrario, cambiavo i titoli alle veline se lo ritenevo opportuno. Quello che per me era frutto di semplice ragionamento qualcuno lo ha interpretato come sintomo della presenza di un informatore da dentro, di un doppiogiochista” spiega Rosaria, una donna alta, robusta, dallo sguardo franco. In Campania ci sono regole del gioco per tutti. Un poliziotto non deve arrestare un camorrista con i figli in braccio. Una cronista può parlare dell’arresto, è normale, ma soltanto di quello. Invece Rosaria si è permessa di informare la cittadinanza del dissequestro dei beni di Schiavone. Era l’agosto di un lontano ’91. E non è bastato frapporre le ferie a quella notizia, al suo ritorno la redazione era in subbuglio. Dopo quell’articolo, infatti, i beni di “Sandokan” erano stati risequestrati. Non ci pensa a cosa accadrà domani Rosaria. Le minacce di morte non l’aveva messe in contro, dice, “ma neanche il contrario”. La scorta l’ha ottenuta perché il suo nome era stata accostato a quello di altri due scortati, lo scrittore Saviano e il magistrato Raffaele Cantone. Tutti e tre rischiano la vita per la loro onestà e la dedizione al lavoro in una terra dove, secondo la giornalista, nell’imprenditoria ci sono più collusi che ricattati. Fare il socio della camorra sembra convenga. Anche in Umbria ci sarebbero numerosi imprenditori che usufruiscono di questa condizione, una via di mezzo tra la vittima e il socio in affari. Ma l’Umbria è vicina alla Campania. Il caso "eclatante", invece, è arrivato con Aldo Bazzini, l’imprenditore del nord condannato in primo grado. Lui dice di non aver mai saputo, ma è stato accertato che aveva stretto un accordo alla pari con i camorristi, riferisce Rosaria. Ammette di aver avuto paura la cronista, ma poi le possibilità erano solo due: o si cede o ci si abitua a conviverci. Rosaria ha preferito continuare a fare il suo lavoro perché la sua terra, racconta, oggi non ha futuro. E'stato fatto l'errore di sottovalutare l’organizzazione criminale che tiene sotto la sua morsa una terra intera e la sua gente. Il paragone giusto è Corleone. Al momento, tuttavia, la politica e le istituzioni non affrontano la camorra, denuncia Rosaria, “basta che non si vedano i morti in terra”. E magari si fanno ronde per arrestare gli scippatori. Ma la cosa peggiore è l’abitudine. In Campania si conoscono perfettamente gli imprenditori collusi. Basterebbe non comprare i loro prodotti. Una sorta di disobbedienza civile, anonima e sicura, la cui efficacia è fuori dubbio. Invece tanti continuano ad acquistare “merce contraffatta” o prodotti la cui provenienza è arcinota. Dopo la pensione vuole andarsene dall'Italia, la giornalista del Mattino, fino ad allora vuol continuare a fare il suo lavoro, come ha sempre fatto e mette in guardia: “se un giorno il mio lavoro dovesse essere quello del desk, io lascio. La cosa più bella è l’incontro con le persone. Se non lo posso più fare cambio lavoro.” Condividi